Bianca Di Giovanni, l’Unità 15/5/2014, 15 maggio 2014
L’AUSTERITY HA FRENATO I FONDI UE, ORA LA SFIDA È RIPARTIRE
Spendere i fondi europei: è un ritornello che si ripete ormai da diversi anni in Italia. Ieri Matteo Renzi ha usato toni durissimi. «È imbarazzante la quota che non viene spesa: i denari che il Paese non sta spendendo o spende male gridano vendetta – ha detto – Se sfruttassimo i fondi europei come hanno fatto i polacchi non ci sarebbe gap tra il sud e il resto del Paese».
Gli ultimi due esecutivi hanno messo in campo armi «non convenzionali» per riuscire a iniettare linfa nella macchina della spesa locale, riuscendo a utilizzare circa 25 miliardi nel biennio. Oggi ne resterebbero una ventina ancora da spendere relativi alla vecchia programmazione 2007-2013, che sarebbero ancora recuperabili. Eppure nel periodo 2000-2006 l’Italia non aveva mancato un colpo: risorse spese in tempo, piani realizzati. Cosa è successo negli, anni «orribili» 2007-13? Questa è la domanda da porsi. Cosa è cambiato dal periodo precedente? Vale la pena individuare le differenze per superare il problema nel futuro.
Per i prossimi, sette anni ci sono in ballo 58 miliardi di fondi comunitari (articolati in Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale), di cui la metà circa da Bruxelles e il resto dallo Stato italiano. Queste risorse sono legate a un Accordo di partenariato 2014-2020 (in Europa si procede sempre per settenni), ovvero un piano che descrive le macro azioni necessarie e, in alcuni casi, le misure specifiche sulle quali deve concentrarsi l’impegno del nostro Paese per colmare le distanze delle aree meno sviluppate. Oltre a questo ci sarebbero altri 40 miliardi dei fondi di Sviluppo e coesione, che sono tutti italiani (ma programmati secondo le scadenze europee). Il condizionale però è d’obbligo, perché per ora si tratta solo di impegni: in cassa non c’è ancora nulla. L’intero «pacchetto» di 98 miliardi per ora non è spendibile. I fondi comunitari infatti saranno spendibili solo dopo che Bruxelles avrà approvato l’Accordo di partenariato presentato dall’Italia.
La scommessa per il nostro Paese è farsi trovare pronti al momento del via libera, con piani e gruppi di attuazione già individuati. In questo modo si potrà partire già da gennaio prossimo. In ogni caso in questa corsa alla spesa futura l’Italia per ora è con tutti gli altri partner europei. Si ricomincia daccapo.
Tornando al ritardo accumulato nell’ultimo settennio, vanno sottolineate due particolarità, che rendono quel periodo diverso da quello precedente. In primo luogo la pesante crisi economica, che ha messo sotto pressione il bilancio pubblico italiano. Si dirà: appunto per questo valeva la pena spendere qui soldi. Difatti è così, ma le regole del patto di stabilità interno hanno imposto una tagliola sulla possibilità di spesa delle amministrazioni locali. Per rispettare quelle regole, le Regioni hanno evitato di spendere, lasciando incompleti i programmi. Sempre per seguire l’austerity imposta dalla crisi, si sono tagliate le risorse del cofinanziamento italiano. Tra il 2008 e il 2012 la spesa per investimenti è diminuita del 22% in Italia, anche per via di questo «bavaglio» imposto alle Regioni sui fondi Ue. Non è un caso che le amministrazioni più virtuose sono quelle che hanno un bilancio più solido: quelle potevano spendere e non subivano restrizioni. Le altre dovevano seguire la dieta rigorista. Nel centronord la maglia nera va a Lazio e Friuli. A Sud sono andate meglio Puglia, Basilicata, Sardegna, Molise e Abruzzo, restano indietro Sicilia, Campania e Calabria. La Puglia si è ribellata alle regole di «Maastricht interno» attivando le spese per investimenti fuori dal patto: ma il prezzo per chi sgarra in questo caso è molto alto.
L’altra differenza dell’ultimo settennio rispetto al periodo precedente risiede nel fatto che le politiche di coesione hanno perso un forte controllo a livello centrale, passando dal ministero dell’Economia a quello dello Sviluppo (la decisione fu di Prodi). L’esperienza ha mostrato che un monitoraggio centrale funziona. Fabrizio Barca, ad esempio, ha selezionato i programmi più efficienti e vi ha dirottato le risorse, riuscendo così a recuperare parecchi miliardi. E non solo: ha anche spinto per il varo di un’agenzia che monitori l’attuazione dei programmi. Sulla carta c’è già: ora tocca a Renzi attuarla. Le sue parole di ieri fanno ben sperare.