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 2014  maggio 15 Giovedì calendario

GLI STATI «FALLITI» DOVE NASCE IL TRAFFICO DEI MIGRANTI


Il leggendario leone bianco, assoluta rarità dal manto albino che Gheddafi si fece spedire dal Sudafrica, sbadiglia pigramente dietro le sbarre, quasi disinteressato ai tre polli spennati sul pavimento della gabbia mentre i guardiani filippini sonnecchiano all’ombra dei lentischi. L’atmosfera è rilassata, ma ingannevole perché un andirivieni di rombanti van Iveco scarica dozzine di migranti: questo è lo Zoo di Tripoli, il primo centro di selezione dei clandestini sulle coste libiche da dove arriva sulle nostre sponde oltre il 90% dei profughi.
Ecco che cosa accade quando manca una politica europea nel Mediterraneo: Gheddafi non c’è più, ma non diversamente dal Colonnello il ministro degli Interni libico, Saleh Mazegh al Barrasi, minaccia che «l’Europa parolaia la pagherà cara se non collabora per fermare il fiume dei migranti illegali». E come se non bastasse Mazegh ha quasi sbeffeggiato a Parigi il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, che gli chiedeva di bloccare l’ondata dei profughi.
Come la vecchia Libia anche quella nuova usa i migranti per ricattare l’Europa e forse più ancora delle civili proteste italiane riuscirà a svegliare Bruxelles e la Nato, due ectoplasmi che sembrano ignorare gli effetti delle rivolte arabe, dei loro stessi interventi militari e della destabilizzazione in corso in Medio Oriente e nel Sahel.
Il capo della diplomazia europea, Lady Ashton, esorta le autorità libiche a impedire nuove tragedie mediterranee, ma sembra ignorare che cosa è la Libia di oggi. Mentre ai tempi di Gheddafi esisteva un potere centrale adesso non si sa più chi comanda: il nuovo primo ministro Ahmed Mittigh, un filo-islamico nipote dal potente leader di Misurata Swelhi, è considerato illegittimo da metà del Paese, il numero due dei servizi, Senoussi Akila, è stato appena fulminato in un agguato a Bengasi e quando un migrante viene fermato non è chiaro se si tratti di un arresto, di un sequestro o del reclutamento forzato delle milizie per un passaggio sui barconi a mille dollari al viaggio. Le coste libiche sono fuori controllo e le motovedette sono in mare più per sorvegliare i carichi clandestini di petrolio – la cui produzione per altro è crollata da un milione a 250mila barili al giorno – che le carrette dei migranti.
In un Paese al collasso il traffico degli esseri umani è diventato l’unico business ancora florido. Qui come in Siria, in Libano, alle frontiere della Turchia, in Nigeria, Sudan, Eritrea, Etiopia: una lunga serie di stati falliti o semi-falliti che fa compagnia a tragedie stagionate e dimenticate come l’Afghanistan, l’Iraq, la Palestina.
Come spiegare a Bruxelles e Washington quello che accade a casa nostra, sulla sponda Sud? «L’amministrazione Obama e la Nato portano la responsabilità del caos libico: sono entrati in campo per sbalzare dal potere Gheddafi ma se ne sono andati via subito, senza preoccuparsi della sicurezza e di insediare un nuovo ordine», scrive il "Washington Post". Non possiamo più limitarci a soccorrere in mare i migranti, o peggio ancora a respingerli come in passato. In un certo senso ormai sono tutti rifugiati politici perché è proprio la politica che è fallita, con conseguenze devastanti. È il momento di pensare non soltanto a nuove misure di asilo o a ripartire i profughi, ma a intervenire sulle cause di questa innarrestabile fuga. Cosa faremmo, per esempio, se le duecento ragazze nigeriane imprigionate dai Boko Haram venissero liberate e decidessero di fuggire qui? Rispondiamo con un tweet?

Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 15/5/2014