Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 15/5/2014, 15 maggio 2014
“IL MIO KAMIKAZE POLITICO, SUICIDA IN UN PAESE FUORILEGGE”
[Intervista a Giulio Casale] –
Poi, in una notte milanese di un aprile capriccioso, ti capita di assistere a un concerto al Tunnel. Ed è come in una vecchia canzone di Guccini, “un istante déjà vu”. L’“ombra della gioventù” è rimasta, anche se gli Estra – storica band del rock italiano di fine millennio – sono cresciuti come i moschettieri di Dumas: Vent’anni dopo (in realtà l’ultimo concerto è stato nel 2004) il tour della reunion si è appena concluso. Vecchie hit, tracce di nostalgia e due nuovi brani: Veleno che resta e Kamikaze politico. “Ecco la sua rabbia da fame blu / Tra pochi secondi Roma fa bum”: l’Italia non è affatto un Belpaese. “È un paese del tutto e anche tecnicamente fuorilegge, come minimo dal 12 dicembre 1969”, spiega Giulio Casale, leader degli Estra e coautore assieme ad Andrea Scanzi dello spettacolo Le cattive strade (sabato sera, alla festa del Fatto Quotidiano a Genova, sarà possibile assistere a un estratto del recital, con l’introduzione di Dori Ghezzi).
Un paese fuorilegge?
Non conosciamo la verità su Piazza Fontana e sono passati più di quarant’anni! Ma anche senza scomodare quelli che ormai, con sinistra disinvoltura, chiamiamo misteri italiani o stragi di Stato, basta guardare come funziona un concorso universitario. Per non dire delle vicende giudiziarie di questi giorni, di questi anni. L’Italia è antropologicamente fuorilegge, tanto che nemmeno lo si assume come problema. Di fronte a questo c’è la rabbia di chi non ce la fa più: per un autore il minimo è immaginarsi uno che va a mettere una bomba nei palazzi del potere.
Detto così sembra un auspicio...
Tutt’altro. Sono contro ogni forma di violenza. Non a caso il kamikaze fa una brutta fine. Il messaggio non è un incitamento alla violenza. Anzi. Ma la sofferenza delle persone c’è, bisogna raccontarla.
Si è spesso evocato lo spettro della ribellione in questi anni di crisi. Di fatto non c’è stata.
Alcuni focolai di protesta ci sono stati, ma si sono spenti immediatamente. L’Italia s’è addormentata, altro che desta. Siamo usi allo sfascio, in politica ci siamo assuefatti al meno peggio. Sappiamo che i nostri figli cresceranno con la consapevolezza che tutto è corrotto. Però non riusciamo a fare il passo successivo: mandare a casa l’intera classe dirigente, da destra a sinistra.
Grillino?
L’analisi del M5s è perfetta. Quello che non riesco a concepire è la vendetta, le manette per tutti: al carcere io non credo. Questa classe dirigente va condannata senza appello a 12 ore di biblioteca coatta quotidiana. A leggere la Costituzione e i testi di autori che possono illuminare questi signori, che disconoscono i valori su cui si fonda la Repubblica, sulle loro troppe malefatte.
Avete ancora la libertà di pensare ma quello non lo fate, e in cambio pretendete la libertà di scrivere. Gaber l’imputava ai giornalisti, ma vale anche per arte, musica, letteratura. La critica al potere è pressoché scomparsa.
Siamo figli di autori come Gaber, appunto, e De André che hanno avuto il coraggio di fare invettive con nomi e cognomi. Non dico Pasolini perché nel momento in cui Gasparri lo cita bisogna smettere di parlarne. Aver accettato che la canzone si riducesse a colonna sonora è una responsabilità dell’industria culturale. Ma c’è una corresponsabilità degli artisti che hanno chinato il capo e deciso che lo scopo era diventare la sigla di un programma televisivo o il jingle del cornetto Algida. È l’intrattenimento, bellezza: te l’hanno chiesto, certo. Ma si può sempre dire di no.
Bisogna sopravvivere.
Il problema del sostentamento esiste: lo spiega bene Hemingway in Festa mobile, quando si lamenta che il giornale canadese per cui faceva il corrispondente da Parigi non pubblicava i suoi racconti. Dice: io sono uno scrittore, devo pubblicare. Il suo amico pittore invece, in quell’atmosfera che Woody Allen ha raccontato con Midnight in Paris, si manteneva bene. E gli risponde così: non c’è bisogno di poesia edita, ma di poesia inedita. Ora, noi dobbiamo campare con il nostro mestiere ma siamo in una tagliola. Bisogna trovare un modo.
Il suo?
Per fare uno stipendio, mi sono inventato tre mestieri.
La scomparsa del pensiero critico provoca anche l’impossibilità di produrre anticorpi verso quello che il famoso “sistema” propina, in termini di valori ma anche di gusto: sotto il pop, niente.
La logica che presiede alla direzione artistica di un qualunque teatro italiano è la stessa della tv. La qualità non vale niente. Conta il successo. La funzione della cultura però è la proposta: mostrare qualcosa che ci fa stare bene, che ci fa pensare, che ci stupisce. Qui decifrare la contemporaneità non è, come altrove, una necessità collettiva.
Sembra che il tempo presente non si senta capace o autorizzato a parlare di sé. Non c’è niente da capire?
Tutt’altro. Questa crisi, l’etimo greco ci viene in aiuto, non è la fine, ma un momento di passaggio. E chi fa cultura ha il dovere di raccontarlo. Basta parlare della Seconda guerra mondiale, o della prima rivoluzione industriale! Se n’è scritto già tanto, e con questo non voglio liquidare il passato. Solo dire che c’è bisogno di chiavi interpretative di questo tempo e della sua complessità. È ora di fare proposte originali, autonome rispetto alle voci del passato, che siano scrittori o cantautori. È un’emancipazione necessaria, un’individuazione senza cui siamo condannati a restare una società bambina. Rassicurata da grandi padri, ma fragile.
Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano 15/5/2014