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 2014  maggio 15 Giovedì calendario

DA ANFITEATRO A SPARTITRAFFICO GLORIA E TRAMONTO DI UN SIMBOLO


È più o meno da mille e cinquecento anni che i romani non sanno bene che fare del Colosseo. L’utilizzo di successo della seconda metà del Novecento - grande rotatoria - si è (quasi) esaurito da che il sindaco Ignazio Marino ha reso (quasi) pedonale metà di via dei Fori Imperiali. In fondo la funzione di spartitraffico non è stata la più umiliante per l’anfiteatro costruito sul laghetto di Nerone e inaugurato nell’80 dopo Cristo con cento giorni di bagordi e ammazzamenti: nel Medioevo fu anche un deposito di concime. Il problema di allora è il medesimo di oggi, e cioè come trarre utilità da un gigantesco edificio posto da un incidente della storia sulla gobba della capitale. Per quattro secoli abbondanti fu l’ombelico godereccio e sanguinoso del mondo, ma all’arrivo dei barbari era già fatiscente. Il trasloco della capitale dell’Impero a Costantinopoli (Istanbul) aveva impoverito Roma e non c’erano i denari per aggiustare e mantenere in attività uno stadio da circa ottantamila spettatori. Le pietre che cascavano venivano portate via e riciclate per innalzare nuove case; qualche bella scossa di terremoto contribuì al recupero del materiale e al buon umore degli operai, e alcuni dei fori che si vedono ancora oggi sulle pareti esterne originano dall’estrazione delle grappe di ferro, utili e costose.
Insomma, generalizzando, i romani dal Colosseo succhiano il succhiabile ma non lo amano più di tanto, anche ora nell’età del turismo, che il Grande Molare Cariato (soprannome dei detrattori) è una miniera d’oro. La vicenda degli introvabili cinque custodi per la notte dei musei è esemplare: la vecchia arena dà uno stipendio. Finita lì. Il resto sono scocciature. C’entra l’andazzo complessivo italiano, ma c’entrano anche quindici secoli di lotta fra l’anfiteatro e l’Urbe. Il caso perfetto è quello di papa Sisto V (1521-1590), colto e amante del bello. Prima ebbe l’idea un po’ drastica di radere al suolo il Colosseo, di modo da congiungere enfaticamente San Pietro a San Giovanni in Laterano. Troppo costoso. Allora pensò di riconvertirlo in lanificio e i lavori partirono pure, ma dovettero essere fermati sempre per l’esorbitanza delle spese. Nel frattempo si continuò a scambiare il Colosseo per una specie di cava. I marmi furono portati via dai nobili ad abbellire gli sfarzosi palazzi del Rinascimento romano. Alcune delle pietre si dice siano tornate buone per la Basilica di San Pietro, mentre è certo che servirono a edificare Palazzo Barberini e Palazzo Venezia, da dove il Duce teneva i suoi discorsi alla folla eccitata.
E intanto che pezzo a pezzo il gioiello di Vespasiano se ne andava in giro per la città, dentro se ne ricavò spazio per una fabbrica di colla, per una chiesa, per le stazioni della Via crucis, e alla sera vi si radunavano gli animatori della movida, a bere vino e cantare, intanto che fra gli archi coppie di giovinastri o di fedifraghi improvvisavano l’alcova. Certo, non è stato un destino esclusivo del Colosseo. Lo è stato di quasi tutta la Roma imperiale. Il Colosseo aveva quel difetto in più che tutto l’accanimento della storia non bastò a completare la distruzione. Subito dopo la caduta dell’Impero, e per secoli, dentro e a ridosso dell’anfiteatro vennero costruite capanne, stalle, fienili, botteghe di maniscalchi, di speziali, di ciabattini. Nei secoli crebbe una tale vegetazione che nell’Ottocento furono classificate quattrocento specie diverse di fiori ed erbe. Arrivarono gli archeologi, e soprattutto la tronfia ambizione del fascismo, a restituire onore e gloria al Colosseo. Eppure oggi è semplicemente il regno di finti gladiatori e di venditori ambulanti, oltre che di turisti sbigottiti in perenne fila davanti a uno scheletrone. Vietato sfruttare lo stadio più famoso e struggente del pianeta per concerti o spettacoli, facilitarne la visita, aprire librerie e negozi: sarebbe volgare commercializzazione. Quando poi il Colosseo volgare nacque e volgare visse, e volgare andrebbe bene pure in vecchiaia.

Mattia Feltri, La Stampa 15/5/2014