Francesco Guerrera, La Stampa 15/5/2014, 15 maggio 2014
TRA CINA E USA IL GIOCO SOTTILE DI DUE GIGANTI
Fu in un taxi, dieci anni fa a Pechino, che capii veramente quanto è grande la Cina.
Stavo parlando di calcio col tassista in un misto orripilante di cinese e inglese - «Baggio…ting hao…very good!» - quando imboccò un’autostrada enorme che sembrava fosse stata aperta il giorno prima.
«La quarta tangenziale», mi disse molto fiero. «Pechino è l’unica città al mondo con quattro tangenziali».
Oggi, di tangenziali a Pechino ce ne sono sette, monumenti d’asfalto che celebrano la voglia di crescere della Cina moderna.
Sono anni che il Paese continua a spingere sull’acceleratore e i risultati sono eccezionali.
La Cina sta per superare gli Stati Uniti per diventare l’economia più grande del mondo. Questo, almeno, è quanto ha detto l’International Comparison Program, un progetto della Banca Mondiale, un paio di settimane fa.
La notizia ha fatto scalpore, soprattutto in America e Cina.
Se l’Icp ha ragione, saremmo di fronte ad un momento storico, un passaggio di consegne dall’Ovest all’Est che confermerebbe il declino degli Usa e l’ascesa ormai inesorabile della Cina come strapotenza economica.
I numeri, però, non sono chiari. Se si guarda solo il prodotto interno lordo, l’economia Usa vale più o meno il doppio di quella cinese (l’Italia è all’ottavo posto). Il sorpasso non è previsto prima del 2020.
Ma l’Icp e la Banca Mondiale tentano di misurare le «vere» dimensioni delle economie del pianeta. Non solo il valore nominale del Pil ma anche il potere di acquisto delle monete.
L’idea è ovvia per chiunque abbia viaggiato all’estero: nei Paesi in via di sviluppo, come la Cina, il denaro «compra» di più perché beni e servizi costano meno che nel primo mondo. In questo senso - e solo in questo senso - l’Icp ha detto che la Cina sta per superare gli Stati Uniti.
La metodologia è legittima ma i risultati sono discutibili. E’ vero che a Shanghai uno yuan compra più di un dollaro a New York, ma un Paese come la Cina deve usare la propria divisa per importare beni dall’estero. Quando comprano missili e navi da guerra, gli iPhone o le Bmw, i cinesi devono pagare il prezzo dettato dai mercati internazionali.
Ma anche se la Cina non è ancora l’unica superpotenza dell’economia mondiale, il fiato del dragone cinese è sul collo dello zio Sam e gli Usa lo sentono.
Le reazioni dei due Paesi ai calcoli della Banca Mondiale la dicono lunga sulla precaria posizione dell’economia mondiale. Negli Stati Uniti, media ed esperti hanno tentato o di ignorare i numeri dell’Icp o di spiegare perché fossero sbagliati. In Cina, il governo ha fatto lo stesso. L’Istat cinese ha detto che non «riconosce i risultati come statistiche ufficiali» e gli organi di stampa governativi hanno detto chiaramente di non credere ai numeri.
E’ un sottile gioco politico, tra due Paesi che hanno molto da perdere da un confronto aperto sia sul piano economico.
Gli Usa - soprattutto la debole amministrazione Obama - non vogliono sentire parlare di declino terminale, a pochi anni da una crisi finanziaria durissima e da una recessione devastante.
E la Cina fa la classica pretattica: non ha nessuna intenzione di spaventare il mondo né di aumentare le aspettative di una popolazione locale che, in generale, non vede molti frutti di questa crescita mozzafiato. La verità è che la Cina rimane un Paese povero perché ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti: il Pil pro capite è il 99esimo al mondo, anche tenendo conto del valore d’acquisto della moneta.
«La Cina è grande ma non è forte», ha detto il guru dell’economia cinese Mao Yushi al Financial Times. E’ un aforisma applicabile a tanti aspetti della crescita di un Paese che mezzo secolo fa era ancora nel medioevo di Mao Zedong.
Per ora, gli Stati Uniti e la Cina sono alleati nel non voler cambiare lo status quo economico. Ma è una pace fragile, destinata ad essere interrotta dalle correnti inarrestabili di commercio, capitali e crescita.
La Cina già controlla aspetti fondamentali dell’economia del pianeta. Il suo appetito insaziabile per materie prime sta trasformando (in meglio) Paesi quali l’Australia e il Brasile, la Mongolia e l’Angola. Gli investimenti di aziende e banche cinesi stanno aiutando l’Africa a combattere secoli di oppressione e problemi economici. Non ci sono molti paralleli storici per l’impatto della Cina sul resto del mondo: un Paese in via di sviluppo che muove mercati mondiali e cambia la realtà economica di interi continenti.
Non è un caso che il successo di Pechino stia creando tensioni politiche, soprattutto con il Giappone, un’altra potenza economica in declino che un tempo aveva ambizioni di egemonia regionale in Asia.
Ma sarebbe un errore dare gli Usa per spacciati. Nonostante i fallimenti degli ultimi anni e una seria crisi di leadership politica nella Casa Bianca e nel Congresso, l’America possiede risorse uniche. E non parlo solo di petrolio e gas a fratturazione idraulica che stanno alimentando una nuova rivoluzione industriale in parti del Paese.
Mi riferisco più alle «energie capitaliste» di un Paese che ha fatto del rinnovo la sua raison d’être. La lista dei vantaggi dell’America sul resto del mondo è lunga: dai mercati finanziari all’industria dell’intrattenimento di Hollywood, dagli imprenditori della tecnologia all’esercito di immigrati pronti a tutto per prendersi un pezzetto del sogno americano.
L’influenza degli Stati Uniti sul resto del mondo è più grande persino dell’economia Usa e né la Cina, né l’Europa possono pensare di contrastarla nei prossimi anni.
Nell’autostrada dell’economia, i sorpassi sono più difficili che nelle ampie tangenziali di Pechino.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York. francesco.guerrera@wsj.com e su Twitter: @guerreraf72
Francesco Guerrera, La Stampa 15/5/2014