Alberto Statera, la Repubblica 15/5/2014, 15 maggio 2014
QUEI BUROCRATI TORERI ALL’ETERNA CORRIDA DEL POTERE IMMOBILE
Palazzo Chigi non è un palazzo, è una città: quindici edifici, 4.200 dipendenti, 21 uffici, 16 dipartimenti, 6 strutture di missione, 2 unità, 300 dirigenti: se non todos muchos caballeros. Questa è solo la testa del multiforme mostro della Pubblica amministrazione che l’ardimentoso Matteo Renzi, con giovanile velleitarismo, ha promesso di voler disarticolare. In quel palazzo-città è segregato con lui il sottosegretario “a tutto” Graziano Delrio, di professione ex medico endocrinologo.
Edap ochi giorni c’è anche il nuovo capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi (acronimo Dagl) Antonella Manzione, ex comandante dei vigili urbani di Firenze, che ha partecipato per la prima volta al “pre-consiglio” dei ministri, il mitico giardino incantato dei monopolisti della complessità. Per capire il valore reale dell’evento-Manzione bisognerà leggere Nomenklatura , il libro di Roberto Mania e Marco Panara in uscita per Laterza (pagg.168, euro 15), che nel descrivere «il potere che non si vede» racconta anche come si guerreggia la corrida del “preconsiglio”, dove i tori sono in prevalenza una folla di legulei intrisi di sapienza giuridica al servizio della complessità: consiglieri di Stato, della Corte dei conti, dei Tar, i veri padroni dei ministeri assisi al vertice dei gabinetti ministeriali. Alla sua prima volta, la dottoressa Manzione, che rompe il monopolio dei magistrati amministrativi, è arrivata con la sua cartellina al seguito di Delrio, già ammaestrato dai primi pre-consigli (oltre che forse dalle riunioni di famiglia con i suoi nove figli) e al fischio di inizio ha vissuto la sua prima tauromachia. Si discutono i provvedimenti, se ne valutano le coperture, si litiga, si fa pace, si fanno scambi, si filtra. Se tutto va bene, il toro viene infilzato e la pletora di commi e contro- commi è quasi pronta per il Consiglio dei ministri. Altrimenti, all’italiana, il governo vara solo una “copertina” con la formula magica “salvo intese”, che Mania e Panara giudicano giustamente il marchio di fabbrica della politica degli annunci, ovvero di quello stile di governo nel quale si dà per fatto ciò che ancora fatto non è, possibilmente in tempo per i telegiornali della sera.
Non sappiamo se Matteo Renzi, prima di dichiarare guerra ai mandarini della Pubblica amministrazione, abbia letto il Dia logo sul potere di Carl Schmitt, ma dopo un paio di mesi deve aver avuto precisa la sensazione che purtroppo «anche il principe più assoluto è dipendente dai suoi consiglieri». Che in Italia sono consiglieri di nome e di fatto: consiglieri di Stato, consiglieri dei Tribunali amministrativi, consiglieri della Corte dei conti.
Un network giuridico che si è appropriato del processo di costruzione delle norme, spesso con «culto perverso della complessità », come lo chiamano gli autori di Nomenklatura, che rende difficile se non impossibile il “fare”. Sono diventati monopolisti dei ministeri, imponendo la loro cultura e il loro linguaggio giuridico. Quel che conta non è tanto il risultato, ma l’itinerario della carta quasi sempre imbrattata da formule incomprensibili ai più. Se le leggi sono scritte con i piedi e non sono “auto-attuative” con la semplice pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale , costringono a “decreti attuativi”. Se anche quelli non bastano, niente paura, interverrà il Tar o il Consiglio di Stato per darne l’interpretazione “autentica”.
«Il Consiglio di Stato, la Corte dei conti, le alte burocrazie ministeriali — ha scritto nella sua autobiografia l’ex banchiere Cesare Geronzi, che di potere disinvolto e incontrollato se ne intende più di tutti — formano un potere fortissimo quanto irresponsabile che esercita un controllo pervasivo sulla Pubblica amministrazione. In nome dell’indipendenza, queste entità amministrano da sé le carriere. Formano corporazioni con gerarchie ferree, impermeabili a qualsiasi forma di controllo democratico. E così tutti conservano le poltrone e le relative prebende, spesso arrotondate dagli arbitrati. I magistrati del Consiglio di Stato distaccati ai ministeri scrivono leggi e decreti con ambiguità che lascia ai colleghi in servizio nella magistratura amministrativa il potere di interpretare».
I capi di gabinetto, degli uffici legislativi, i capi dipartimento e i segretari generali, i tecnocrati della Ragioneria generale dello Stato, i magistrati amministrativi e contabili, gli avvocati dello Stato, ci sono sempre stati. Ma via via che è andata peggiorando la qualità della classe politica, il loro potere è cresciuto, insieme all’immobilismo del paese.
Correvano gli anni Settanta quando tra i Padrini del vapore (non i «Padroni del vapore», come Ernesto Rossi aveva chiamato gli industriali) conquistò il primato di potere e di relative polemiche sull’ Espresso il presidente di sezione del Consiglio di Stato Franco Piga. Espertissimo capo di gabinetto del molle presidente del Consiglio democristiano Mariano Rumor, a palazzo Chigi non si muoveva foglia senza il suo placet. Gli epigoni dei tempi moderni si chiamano Antonio Catricalà, Giuseppe Patroni Griffi, Pasquale De Lise, Lamberto Cardia, Carlo Malinconico, Corrado Calabrò, solo per citarne alcuni.
Tutti giuristi, tutti grandi consulenti governativi in un continuo “entra ed esci” dalle poltrone del potere, come nella porta girevole di un Grand Hotel.
Un network irresponsabile, inamovibile, inscalfibile, che in tutti gli anni del berlusconismo ha avuto il suo dominus in Gianni Letta, che consigliere di Stato non è, ma che è stato molto di più: il grande lord protettore della Nomenklatura, dispensatore di nomine, di consulenze, di arbitrati, di potere e — non ultimo — di denaro. E tuttora, dietro le quinte, in servizio permanente effettivo.
Nelle amministrazioni moderne — hanno calcolato Mania e Panara — i giuristi sono il 30 per cento, gli altri sono ingegneri, informatici, matematici, geologi, agronomi. Da noi è il contrario e anche quelli che non sono giuristi sono ormai contaminati dal linguaggio esclusivo ed elusivo che si parla nelle nei templi della burocrazia, nelle sedi del «circolo vizioso disfunzionale».
Dunque, giuristi vil razza dannata? O anche politici incapaci di affrontare il disboscamento burocratico? L’aspirante disboscatore Renzi prenda nota di quanto tanti anni fa scriveva Luigi Einaudi: «Il vero ostacolo per l’attuazione della riforma burocratica in Italia sono i ministri stessi, che per quanto siano bravi non sono in grado di compierla da soli». a. statera@ repubblica. it
Alberto Statera, la Repubblica 15/5/2014