Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera 15/5/2014, 15 maggio 2014
RITORNO AL PAESE DEL DOLORE INVISIBILE
Ritrovo ad uso di segnalibro, nelle pagine della vecchia edizione di Un viaggio in Italia di Guido Ceronetti, un biglietto ferroviario Roma-Fondi andata e ritorno, classe seconda, pagato un po’ meno di diecimila lire il 25 gennaio 1997: una data che, essendo parecchio lontana da quella dell’uscita del volume, il 1983, è indizio di una rilettura. Sottolineate a matita sono soltanto quattro righe della prefazione, nelle quali sta scritto: «Campo di lotta tra Bene e Male è dappertutto, dove c’è un uomo capace di pensare: in Italia il loro contendere ha sempre coinvolto anche la bellezza, l’ha avuta come suprema moderatrice, oggi per vittima». Dunque non rileggo a salti, guidato dalla matita, bensì da capo e per intero questo libro violento, in cui abitano il furore e la pietà, e un desiderio inesausto di rivelazione, quale adesso, integro e con poche aggiunte, lo ripropone Einaudi.
Subito, confine dell’Asia, ritrovo Trieste, il sabato verso sera «sommersa dalla carta sporca», con i compratori slavi che vengono da oltre confine, contratti, gravati da una profonda tristezza. Poi, corriere e treni; in trattoria uova e insalata, polenta e ceci; noia bene addomesticata nelle stanze d’albergo; un lago Maggiore, al crepuscolo, corrusco e sublime; Santa Chiara quieta con l’altare rivolto verso Dio; molte altre chiese, e a Rogarolo il Po: «calmo, antico, sublime (ormai è una marasca di veleni, ma l’occhio ancora sogna) col tremolare senza fine delle foglie morenti sulla sponda lombarda…». Il dio acquatico, è vero, ha abbandonato il fiume alle centrali elettriche e a quelle nucleari; il vuoto della vita agricola è assordante nei campi; i preti dagli altari rivolti al pubblico dicono cose stupide o banali; nelle serate culturali i freudiani fanno di peggio; nei treni e nelle corriere la gente non parla, apre la bocca (invece nelle cabine dei telefoni afferrano le cornette e le consumano quasi); sui muri, per le strade, le scritte espongono l’ottusità e la paura; eppure «questo grande rottame naufrago col vecchio nome di Italia è ancora, per la sua bellezza residua, un non pallido aiuto alla pensabilità del mondo». E a Torino, la città delle messe nere, c’è il Cottolengo. Qui «le facce di felicità pura e come incantata, delle piccole suore e dei fratelli cottolenghini sono facce di ben remunerati, di soddisfatti da una paga che non appartiene al mondo e che si guadagna ancora più per grazia che per fatica. Nella paga della gente cottolenghina c’è un barlume di quel che giustifica l’essere e salva da un orrore senza fine la vita».
Quanti Ospizi della Carità, quanti Alberghi dei Poveri, quante bocche sdentate piegate sulla minestra, quanti cucchiai impugnati con l’ultima forza per vincere il tremore, quanta generosità salvatrice in questa Italia priva di Spirito, assediata dalla volgarità, corrotta dalla Bestia del danaro. E quanti Ospedali, quante corsie, quanti letti a contenere piaghe e dolori indescrivibili. Quanti pazzi storditi dagli psicofarmaci. Quante donne nude, o che si cambiano, in questi ospedali dei pazzi: deformi, come Aida a Nemi. Siamo a Lucca, ora, nel vecchio Ospedale: «Mi manca di non aver fatto il medico, sarei stato benissimo in un posto come questo, tra i busti e le crepe, avviluppato nel grande lenzuolo della sofferenza umana, prescrivendo pochissimo, tisane e qualche cardiotonico, aiutando a morire bene, con poco dolore, gli incurabili, chiudendo finestroni, rincalzando coperte, leggendo poesie ai più intelligenti…». Sicuramente non le poesie del Pascoli, «poeta e scrittore di una mediocrità intollerabile, autore di versi e prose illeggibili»; e neppure quelle di Ezra Pound, sepolto a Venezia nell’isola di San Michele, a due passi da Stravinskij, autore di musiche buone «per accompagnare il salto delle pulci».
Da Barga a Castelvecchio, per un momento, i torrenti, le montagne innevate e il tripudio primaverile nel fondo valle hanno dischiuso il mistero delle cose. A Venezia, la Tempesta del Giorgione «è una rappresentazione difficilissima da capire, per la sua privazione assoluta di tragico, di movimento, di angoscia… Il silenzio della Tempesta più la guardi più si dilata, si prova un disagio per un mistero che non ha ombre… Si possono immaginare parecchi fulmini: nessuno di loro farà paura». A Santo Stefano di Sessanio, in Abruzzo, c’è un vero asino: «splendida immagine di pace, orecchie di sapiente, occhi di bontà», con il quale vale la pena parlare un poco «della vita e della morte, di chi vince e di chi perde, di chi sa e di chi non sa…».
Palermo è devastata, non si vede il mare (però anche il porto di Genova è un inferno, con navi disumane di Caronte). I paesi attorno a Catania deturpano le pendici del vulcano. A Sulmona, appena finita la celebre processione della Settimana Santa, dopo che la Madonna è corsa incontro al Risorto, tutti mangiano e bevono e ascoltano la musica sui prati. Tutti mangiano, ovunque, in Italia, e troppo (cosicché «la sovralimentazione non produce tanto adipe e malattia coronarica quanto demenza»). Tutti urlano, sporcano, inquinano, rubano, uccidono, si ammazzano. Il paesaggio è sconvolto. I miasmi industriali nascondono il cielo. La Chiesa ha dimenticato o spento i suoi riti. Come non capire che «le società umane civilizzate, guardatele, non sono più che aggregazioni di follia tenute insieme dalla paura e dalle coercizioni»?
Dov’è la Luce? A Segesta, dopo la pioggia, davanti alle colonne percorse da quei soffi ineffabili? A Noto, un piccolo borgo che percorri come l’infinito, un sogno dell’immanenza divina? Nell’arte barocca, «in quel non terminato che racchiude e invita al riposo»? Nei cimiteri? Nei libri? Nella povertà cristiana? Nelle Acque Superiori del Po, vale a dire nelle acque invisibili?
Napoli è «uno dei peggiori luoghi d’Italia». Ma ha anche spazi perfetti (per esempio, la chiesa del Gesù Nuovo: «Mi piacerebbe essere prete in una chiesa come il Gesù Nuovo, o altra, purché barocca, ma conservando la mente libera»), e un quadro mirabile a Capodimonte, San Girolamo che toglie la spina al leone, sul quale meditare quando la mente fa fatica. La spelonca è tutta stipata di libri e di «materiale mentale», eppure il santo filologo ha sospeso ogni sua attività mentale per dedicarsi a togliere la Spina dalla zampa dolente del Leone: «Così bisogna ricordarsi di essere: mai troppo assorbiti nel mentale e nell’astratto, nella parola (anche la più sacra), per non dimenticare il Piede dell’Animale-che-soffre, il Leone dal ruggito implorante a cui va tolta, prima di pensare ad altro, la spina che lo tortura».
Trent’anni sono trascorsi da questo viaggio nel dolore e nell’invisibile. Il dolore è eterno. E l’invisibile non si manifesta. Quasi mai. A noi non è concesso altro che bussare a qualche porta. Per esempio a quella del monastero di Sant’Antonio in Polesine, «luogo incantato di vecchia Ferrara fuori del tempo». Lì, una suora decrepita, molto sorda, suor Ildefonsa, mostra gli affreschi (scambiando un santo per un altro) e soprattutto «tiene sermone». Vorrebbe che il viaggiatore si confessasse perché — dice — è sufficiente una piccola confessione ogni tanto, tutti i peccati sono lavati, poi ci ritroveremo tutti in Paradiso…
«Anche lei — insiste — avrà peccati…».
«Pochi, suor Ildefonsa».
«Bisogna lavare anche quelli».