Valentina Raffa, Il Giornale 15/5/2014, 15 maggio 2014
STUPRI, FRUSTATE E OMICIDI GIÀ 200 SCAFISTI IN CELLA MA POI LA FANNO FRANCA
Ragusa «Una sera, dopo essere stata costretta a uscire dal capannone in cui tenevano il mio gruppo segregato, mi hanno ripetutamente violentata. Erano in tre». Lascia di stucco il racconto di una giovane appena maggiorenne sopravvissuta al tragico sbarco del 3 ottobre a Lampedusa, in cui persero la vita quasi 400 immigrati. Ecco come gli scafisti trattano gli immigrati che traghettano come bestie da una sponda all’altra del Mediterraneo nelle pause tra una partenza e l’altra:«Mi hanno bloccato le braccia, m’hanno versato in testa della benzina che mi bruciava il cuoio capelluto, il viso, gli occhi. È a quel punto che hanno abusato di me».
Fanos, eritrea, malgrado tutto si sente fortunata. «Una volta rientrò solo una delle due ragazze costrette a uscire per soddisfare i bisogni dei carcerieri». Il libro nero della imprese dei mercanti d’uomini è un racconto dell’orrore: stupri, percosse, torture con scosse elettriche, e poi le privazioni, l’impotenza dinanzi ai soprusi e alle violenze in capannoni che fungono da campi di concentramento prima dell’imbarco. È il volto nascosto dei viaggi della speranza in mano ai «soldati» di gruppi criminali che affermano la loro supremazia sugli immigrati, tra cui donne e bimbi che, di fatto, sono prigionieri.
«Eravamo più di 500 in un capanno. I libici ci picchiavano senza motivo, neanche il più stupido. Sono armati di pistole, bastoni e fucili». Cerca quasi una giustificazione alla violenza un immigrato sudanese che racconta il suo calvario alla Squadra mobile di Ragusa. Gli aguzzini usano a loro piacere i prigionieri prima che il potere passi agli scafisti sui barconi fatiscenti che salpano alla volta dell’Italia. «Partiremo solo quando saremo al completo» hanno intimato i timonieri alle centinaia di immigrati stipati nella stiva del barcone giunto martedì a Pozzallo, dove sono stati rinchiusi per cinque giorni, al buio e nell’aria fetida di respiri, vomito, escrementi e carburante. I due nocchieri devono rispondere anche di sequestro di persona.
«I libici ci picchiavano per farci salire sul gommone. Ricordo un ragazzo colpito al collo e in testa stramazzare al centro del gommone». L’eritreo Mostafa è morto a 25 anni. Lo hanno calpestato i compagni di sventura per trovare posto sul natante, poi sono stati costretti a sedergli sopra. Malgrado il regime di terrore instaurato dagli scafisti, gli immigrati si sono ribellati quando i timonieri volevano gettare il corpo in mare. E ancora, la Squadra mobile di Catania e il Gruppo interforze di contrasto all’immigrazione clandestina di Siracusa ricordano di un giovane morto per le esalazioni di vapori idrocarburi del gommone: «Ho il ventre ustionato dalla benzina di alcuni bidoni », aveva raccontato.
La traversata è terrificante. La paura instillata nei passeggeri previene possibili ribellioni. Le privazioni da acqua e cibo li provano anche psicologicamente. L’aspetto fisico più sano dei traghettatori di vite umane a volte li tradisce con la polizia. Saltano all’occhio i calli, i segni delle cime, il grasso dei motori rappreso sotto le unghie, tipico di chi «vive» in barca. Gli investigatori prestano attenzione all’odore degli sbarcati. Poi ci sono gli sms sui cellulari degli scafisti di avvenute transazioni per il lavoro svolto. Per quei soldi non guardano in faccia a nessuno. «Via», urlavano nella loro lingua ai disperati che non volevano tuffarsi perché non sapevano nuotare. E giù cinghiate fino a liberarsi di tutti. In 13 morirono al Pisciotto, nelle acque di Montalbano. «Ho visto annaspare mio cugino, poi l’ho perso- dice un immigrato-». Pochi giorni fa un barcone si è capovolto a Sud di Lampedusa. Sono 17 i corpi recuperati. I due scafisti arrestati devono rispondere oltre che di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di naufragio e omicidio volontario plurimo.
L’operazione Mare Nostrum avrà salvato 28mila vite, come vanta il governo, ma i morti sono tanti. Le organizzazioni criminali, consapevoli che ci saranno i soccorsi, mettono a disposizione natanti fatiscenti, sovraccaricandoli. E ci sono stragi silenti di cui nessuno è al corrente. Affiorano dalle testimonianze dei clandestini. Si parla di un gommone che prese fuoco mentre era diretto alla nave madre. Degli immigrati soltanto una parte fu tratta in salvo. Poi la nave partì.
Un paio di giorni fa Palazzo Chigi ha tirato le somme dell’operazione «Mare Nostrum». Stando ai dati forniti dal Viminale, negli ultimi 7 mesi 207 sarebbero stati gli scafisti arrestati. Ma quando si va a vedere come sono finiti in passato i processi, ne vien fuori una realtà che fa a pugni con l’ottimismo algebrico del governo.
Esempi: nel maggio del 2012 il Tribunale di Agrigento ha assolto 3 egiziani accusati d’aver sbarcato a Lampedusa, un anno prima, 213 clandestini. Pochi mesi più tardi i giudici agrigentini hanno restituito la libertà a due palestinesi: erano stati fermati al largo delle coste lampedusane, lì dove non arrivava la giurisdizione italiana. E non è che il «tana libera tutti» scatti solo in Sicilia: ad ottobre, per dire, il Tribunale di Bari ha assolto altri 5 egiziani habitués della rotta adriatica per non aver commesso il fatto. Perché in genere non è facile provare che chi stia al timone sia consapevole di stare commettendo un reato, e perché a volte chi punta il dito contro gli scafisti lo fa anche (o solo) per strappare un permesso di soggiorno. E se tra i presunti responsabili qualcuno a processo neppure ci arriva, perché prosciolto al termine delle indagini ( come i tunisini che nel gennaio 2009 avevano scaricato 228 migranti a Pozzallo), non manca chi dopo la permanenza in cella decide di farsi risarcire l’ingiusta detenzione, come di recente ha fatto il tunisino Hichem Ben Chalbi, ospite delle patrie galere per più d’un anno.
«Mare Nostrum»? Più che altro, loro. Ad aprile proprio a Pozzallo la Polizia ha arrestato 7 scafisti, mentre il più anziano urlava ai compagni: «State tranquilli, in Italia non ci succederà niente: ci staremo pochi giorni. Poi saremo fuori».