Alessandro Longo, Il Sole 24 Ore 14/5/2014, 14 maggio 2014
«GOOGLE GARANTISCA IL DIRITTO ALL’OBLIO»
Chi decide che cosa possiamo sapere degli altri? In base a quali logiche e interessi? Può bastare un algoritmo, come quello del motore di ricerca di Google? Una sentenza della Corte Ue risponde di no. E apre uno scenario di trasformazione per l’intero ecosistema del web. I cittadini europei hanno il diritto di essere dimenticati dal Grande Fratello Web. Poco importa se le informazioni che li riguardano, prese dai giornali, erano all’epoca vere e corrette, e neppure rileva se quelle informazioni hanno ancora un «interesse giornalistico». Google non può espandere all’infinito nello spazio e nel tempo la vita di 500 milioni di abitanti del Vecchio Continente, nascondendosi dietro un ruolo ideale (la web democrazia) o formale (fornitore "neutro" di servizi di rete). La decisione di ieri della Corte Ue (causa C-131/12), promossa da un avvocato spagnolo rimasto impigliato in una procedura immobiliare di 16 anni fa – e tra l’altro ampiamente risolta senza macchia – segna uno spartiacque nel diritto della Rete. L’avvocato ha vinto la sua battaglia contro il motore di ricerca più famoso, che dovrà cancellare quella lontana vicenda dalla storia digitale universale. La sentenza affronta in un colpo solo tre temi di capitale importanza, tra l’altro ribaltando le conclusioni dello stesso avvocato generale della Ue (il "Pm") depositate nel giugno scorso. La prima questione è sul «trattamento dei dati personali». Google ha sempre sostenuto che, indicizzando in modo automatico e pubblicando in ordine di "successo" i link pubblicati sul web (nel caso specifico, i piccoli guai passeggeri dell’avvocato Gonzalez), non compie alcuna attività di «trattamento» (che impone degli obblighi, come accade per esempio per i giornali), ma solo una «indicizzazione automatica» con memorizzazione e messa a disposizione del pubblico. In sostanza, un fornitore di servizi neutrale. La Corte Ue ha attaccato questo principio, a cui peraltro è ancorata anche la nostra Cassazione: quello che fa Google, scrive la Grande Sezione del Lussemburgo, è un vero e proprio «trattamento» quando riguarda i dati sensibili delle persone (e quelli giudiziari rientrano tra questi). Ma mentre i giornali hanno il diritto/dovere di conservare questa memoria (e di aggiornarla, però), un motore universale non può e non deve fare altro che cancellare, a richiesta di parte. Il diritto all’oblio digitale non è però assoluto, perché non tutti i cittadini "indicizzati" da Google sono uguali. Il discrimine sta nel bilanciamento tra i diritti della persona (privacy, oblio), quelli del pubblico di internet a ricevere informazione e a ritrovarla, e infine l’«interesse economico» di Google stesso. Si tratta, come si vede, di una valutazione molto delicata e che comunque, dice la Corte Ue, deve essere orientata fondamentalmente dal «ruolo» più o meno «pubblico» rivestito dalla persona che invoca la privacy. In sostanza, se al posto dell’avvocato Gonzalez ci fosse stato l’erede al trono o il premier iberico, probabilmente quella lontana e insignificante esecizione immobiliare sarebbe rimasta fissata nella memoria digitale globale. Tema numero due. A chi deve essere rivolta la domanda di cancellazione? Ai siti sorgente (p.es. i giornali), come dice la nostra Cassazione e come vorrebbe Google? O invece all’indicizzatore? Secondo la Corte Ue deve intervenire proprio chi ha "messo in fila" i dati della persona, violandone i diritti. Perché un conto è cercare informazioni attraverso la giungla di siti, con tutte le difficoltà e le incertezze che ne derivano, un altro è trovarseli già costruiti e pronti all’uso. E quindi il nuovo principio è: chi ha «creato» quell’immagine della persona ha il dovere di cancellarla. Cioè Google. Non meno importante l’ultimo totem che i giudici del Lussemburgo hanno deciso di attaccare. Google si è sempre difesa, spesso con successo, sostenendo che la società è basata negli Usa (Google Inc), perciò risponde a e soddisfa quella legislazione, e che semmai ricade sotto la giurisdizione americana. La Corte invece ha deciso che la presenza in Spagna di una società collegata (Google Spain) basta a considerare il colosso «basato» in quel Paese con una «stabile organizzazione». Secondo Google si tratta di una semplice società di servizi pubblicitari, eccezione a cui i giudici Ue ribattono che proprio questo la lega a doppio filo al business della «profilazione» dei cittadini spagnoli. La reazione di Mountain View non si è fatta attendere: «È una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che differisca così drasticamente dall’opinione espressa dall’avvocato generale Ue e da tutti gli avvertimenti e le conseguenze che lui aveva evidenziato. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni», ha detto un portavoce. Di «vittoria» parla invece la commissaria Ue alla Giustizia, Viviane Reding: «Le società ora non potranno più nascondersi dietro i loro server in California o altrove» ha scritto la Reading, sul suo account Facebook.
Alessandro Galimberti, Il Sole 24 Ore 14/5/2014