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 2014  maggio 14 Mercoledì calendario

COLPEVOLE O INNOCENTE? IL (NEURO)GIUDICE TI LEGGERÀ IL CERVELLO


Primo interrogativo: perché un adolescente, alla ricerca di sensazioni forti, si droga, pur essendo consapevole del pericolo? Secondo interrogativo: a partire da quale istante un individuo non è capace di intendere e di volere, trasformandosi in un criminale che non riesce più a inibire i propri istinti? Nonostante le evidenti differenze, i due casi sollevano questioni simili: metodologiche, etiche e anche giuridiche.
Il professor Pietro Pietrini, un decennio passato agli Istituti nazionali di Sanità degli Usa, è oggi direttore dell’unità operativa di psicologia clinica all’Università di Pisa. Lo psichiatra - uno dei periti della prima sentenza in Europa ad aver tenuto in considerazione dati genetici e neuroscientifici, con la conseguente riduzione di pena - interverrà al convegno internazionale organizzato dalla Sine, la Società italiana di neuroetica, al via oggi a Padova. E proprio sul piano giuridico - si tratta di una questione-chiave - quanto è rilevante sapere quando un giovane non può non reagire in modo incontrollato? «Le indagini sulla struttura morfologica e funzionale rivelano che nell’adolescente il cervello è ancora in una fase di sviluppo, che poi prosegue anche dopo la maggiore età, a partire dalla quale si è considerati imputabili - spiega Pietrini -. Le modificazioni riguardano dimensioni, struttura e collegamento tra le diverse aree: le ultime a giungere a maturazione sono le connessioni della corteccia prefrontale, quella che più delle altre si è sviluppata nel corso dell’evoluzione e che è deputata alla regolazione del comportamento sociale e al controllo degli impulsi. A stabilire se un giovane potrà scivolare in una carriera criminale concorrono quindi molti fattori: oltre a quelli ambientali, si aggiungono diversi fattori genetici e neurobiologici, elementi che non sono più ignorabili con il pretesto dell’incompletezza delle conoscenze».
L’espressione dell’aggressività è un comportamento istintivo, funzionale alla sopravvivenza, che in noi - com’è noto - è modulato dalla ragione. La patologia subentra quando «salta» il meccanismo di regolazione, che oggi possiamo fotografare. «Le tecniche di neuroimmagine, infatti, permettono di osservare nel dettaglio la struttura e il funzionamento del cervello e confrontare l’architettura cerebrale e i modelli di attivazione neurale di chi ha compiuto dei crimini e di chi, invece, non presenta disturbi del comportamento, in situazioni nelle quali sono in gioco, di volta in volta, l’aggressività, l’empatia e il controllo degli impulsi». E i risultati delle osservazioni sono chiari. «Il cervello di alcuni criminali è diverso - aggiunge lo psichiatra -: la sostanza grigia prefrontale è ridotta di oltre il 20%, è più piccolo il fascio che unisce l’amigdala alle aree prefrontali del controllo cognitivo, detto fascicolo uncinato, così come è ridotta l’attivazione delle aree temporali e della corteccia orbitofrontale, legate all’empatia e all’autocontrollo».
Ma la questione è ancora più complessa. Avere identificato i circuiti neurali coinvolti nei processi decisionali e averne identificato una disfunzione in chi ha già commesso un crimine non significa approdare a conclusioni rozzamente deterministiche. Configurazioni geniche sfavorevoli, infatti, pur indicando una serie di predisposizioni ad agire in modo impulsivo, non sono condizioni necessarie né sufficienti per il crimine o per venire giudicati «tout court» incapaci di intendere e di volere. Le interazioni con l’ambiente - vale a dire le specifiche condizioni sociali e familiari - restano importantissime nel convertire in comportamento effettivo alcune predisposizioni neurobiologiche ad alto rischio.
L’essere umano, non a caso, si interroga da sempre sulla libertà di scelta. L’esercizio del libero arbitrio è la capacità di procrastinare la risposta a un impulso e, dunque, il ruolo dei lobi frontali è fondamentale. «Grazie alle neuroscienze potremo in futuro distinguere con precisione crescente tra coloro che agiscono al di fuori della legalità in modo consapevole - i cattivi per scelta - e quelli che invece sono incapaci di operare altrimenti - i malati -: questi ultimi non perseguibili dalla società, la quale potrà mettere in atto dei meccanismi di tipo protettivo».
Ma allora, affinati gli strumenti a disposizione, che differenza ci sarebbe tra un individuo che tace non perché reticente, ma perchè le sue aree del linguaggio non funzionano correttamente, e un criminale con pesanti alterazioni a carico dei network cerebrali decisivi per il controllo degli impulsi? «Appare chiaro che la ricerca neuroscientifica - conclude Pietrini - impone una rivisitazione in ambito forense dei criteri con cui si stabiliscono la capacità di delinquere e di pari passo fornisce, e fornirà, nuove e più efficaci strategie di intervento educativo e rieducativo. Obiettivo: porre rimedio alle varie forme del disagio giovanile, fino a quello estremo che potrebbe sfociare in comportamenti criminali».

Nicla Panciera, TuttoScienze – La Stampa 14/5/2014