Niccolò Zancan, La Stampa 14/5/2014, 14 maggio 2014
FRA I SUPERSTITI SUL MOLO DI CATANIA “ERAVAMO CARICHI DI DONNE E BIMBI”
Non era vero quasi niente, scusate. È una tragedia, ma non immane. Ritiriamo gli aggettivi, aggiorniamo le statistiche, mettiamoci il cuore in pace. Su quella barchetta a forma di guscio di noce, salpata dal porto libico di Zuwara e naufragata lunedì pomeriggio a 80 miglia da Lampedusa, al massimo ci stavano 250 persone. «Ma pigiate strette», dice il comandante della Marina Militare Stefano Frumento. Ecco il conto, allora: 206 salvati, 17 morti, fra cui due bambine piccole. Quello che resta è il numero ipotetico dei dispersi. Migranti. Dieci nazionalità. Non sappiamo niente di loro. Un poliziotto: «Hanno tutti la stessa storia». Sbagliamo anche le cifre. Tanto nessuno controlla. Ed è ormai evidente, che ci si abitua anche ai naufragi, quando vanno in scena con questa frequenza. Il terzo dell’anno solare, è diventato subito una notizia di secondo piano.
Per quasi due giorni abbiamo saputo poco. Scritto inesattezze. Siamo rimasti incerti, come sospesi. Ma adesso il comandante Frumento scende della fregata Grecale, la nave dell’operazione Mare Nostrum impegnata nelle operazioni di salvataggio, ed è la prima voce ufficiale su questa storia. Le otto di martedì sera. Sono passate 28 ore dal naufragio. Il comandante arriva davanti ai giornalisti, piazzati dietro alle transenne, e dice: «Tutto è successo in acque internazionali, vicino a due mercantili, uno francese, uno africano. Una vera fortuna. Il naufragio è stato veloce. Ma anche l’allarme è scattato rapidamente. Quando siamo arrivati, abbiamo fatto il trasbordo delle persone salvate e delle vittime. Nessuno dei migranti ha mai pronunciato quella frase: “Quattrocento a bordo”. Abbiamo parlato con loro. Dicono cose molto diverse, anche contrastanti. Sarà la procura a chiarire. Ma quella cifra non esiste. Bisogna tenere conto che sono stati imbarcati al buio, stipati l’uno sull’altro. Ed è probabile che non conoscano nemmeno il numero esatto delle persone a bordo». Sotto la luce irreale delle telecamere, il comandante Frumento aggiunge ancora: «Le condizioni del mare erano buone. I motivi del naufragio non sono chiari. Avaria, panico, sbilanciamento. Tutto è possibile. Sappiamo che diversi superstiti non trovano i loro parenti. E sappiamo che nessuno ha chiesto ancora notizie delle due bambine piccole». Sono stati già identificati due scafisti.
Adesso i salvati sono sul ponte di poppa. Seduti. Radunati. Guardati a vista. Visitati dai medici della Croce Rossa. Qualcuno trema di freddo. Quasi tutti hanno ancora gli stessi vestiti che indossavano dentro al mare. Hanno perso parenti, soldi, telefoni, documenti, sono stravolti. Solo i bambini hanno la forza di ridere, qualcuno ha regalato loro magliette enormi. Ridono e giocano, mentre le operazioni di sbarco procedono a rilento. «Ridono perché sono scappati dalla guerra», dice Kalid Hallah della comunità siriana di Milano. È arrivato qui al porto perché molti parenti, dal Nord Europa, l’hanno cercato. Non hanno notizie. I telefoni sono muti. E lui sta cercando delle risposte: «Credo che ci siano molti siriani a bordo della nave naufragata - dice - sono uomini, donne e bambini scappati da un Paese distrutto. La Siria è finita. Non c’è più nulla. Neppure acqua e medicine».
La prima a scendere è una donna incinta con un lungo vestito nero, che non riesci neppure a immaginare come abbia fatto a resistere in mezzo al mare. Sale sull’autoambulanza a passi eterni. Ma è viva. Sta bene. Un ragazzo sbarca in carrozzella. Una donna vomita. È una tragedia al rallentatore. Paolo Di Vito, capo dei volontari della Protezione Civile: «Salendo a bordo, la cosa più dura è stata soccorrere un bambino di 8 anni. Parla poco, piange. Non mangia. Sua madre è riuscita a tenerlo a galla per quasi un’ora. Ma appena i soccorritori li hanno issati a bordo, lei è morta. Questo bambino è solo. Non ha altri parenti».
Non sono storie tutte uguali. In quei numeri sbagliati ci sono dentro madri e fratelli. Telefoni muti per sempre. Alle dieci di sera, le bare sono ancora allineate sulla banchina. Fra i diciassette morti, tredici sono donne. Una era incinta. Adesso si sa. Sta succedendo qualcosa di feroce dall’altra parte del mare. Caricano intere imbarcazioni di minorenni. Fanno partire donne e bambini a metà prezzo. Vendono viaggi in saldo. Usano vecchi pescherecci scassati, con motori decrepiti. Mettendo già in conto che a metà viaggio qualcuno presterà soccorso. I trafficanti stanno scommettendo migliaia di vite sulla nostra capacità di salvarle. Lo fanno anche adesso. Ora. Altri gusci di noce stanno avanzando all’orizzonte. «C’è un flusso costante di imbarcazioni», dice il comandante Frumento. Spesso va bene, qualche volta no. Domenica: «Almeno quaranta morti». Ma erano in acque libiche. E se non sei morto, ti portano in carcere. E’ tutto così lontano. Così transennato. Così impreciso. Aspettavamo la fregata Grecale sulla banchina del porto commerciale, dando letteralmente i numeri. Quanti saranno i dispersi? Ora si può ipotizzare: al massimo 30.
È arrivato il sottosegretario a fare un’intervista. Il direttore della Caritas a chiedere un corridoio umanitario. Due bambine con un fiore giallo per i morti. Uno striscione di benvenuto degli antirazzisti di Catania. A mezzanotte, hanno portato i salvati a dormire al Palazzetto dello Sport. Su tante brandine identiche, ognuno con il suo sogno speciale.
@NiccoloZancan
Niccolò Zancan, La Stampa 14/5/2014