Paolo Mastrolilli, La Stampa 14/5/2014, 14 maggio 2014
L’IMBARAZZO DELLA CASA BIANCA PER L’ALLEATO “RADIOATTIVO”
«Tutto quello che avevo da dire sta scritto nel mio libro». Così l’ex segretario al Tesoro americano Timothy Geithner commenta la sua rivelazione di un complotto per far cadere il premier italiano Silvio Berlusconi, attraverso la portavoce. Dunque Geithner non rivela chi fossero gli «european officials» che lo avevano avvicinato, per proporgli di bloccare ogni assistenza del Fondo Monetario Internazionale all’Italia, fino a quando il presidente del Consiglio non avesse lasciato il potere. Nello stesso tempo, però, non fa marcia indietro e non smentisce la trama raccontata nel suo libro «Stress Test».
La parola «officials» si traduce in funzionari, o anche membri di istituzioni e governi. Quindi è probabile che si tratti dei suoi omologhi, ossia i ministri delle finanze di Germania, Francia, Gran Bretagna, e altri paesi europei. Nello stesso tempo anche l’allora direttore dell’Fmi, la francese Lagarde, potrebbe essere definita «european official», così come i vertici di Bruxelles o della Bce. Non si può escludere poi che un ministro americano come Geithner, all’apice della crisi economica del 2011, avesse contatti diretti con gli stessi leader dei governi.
Nel suo libro l’ex segretario dice che prese sul serio la proposta del complotto, al punto di parlarne col presidente Obama, ma decise che gli Usa non volevano partecipare: «Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani». All’epoca Geithner era impegnato soprattutto a convincere gli europei, a partire dalla cancelliera tedesca Merkel, che dovevano aprire i portafogli per costruire un «firewall», un muro di protezione, in grado salvare dal fallimento tanto le banche, quanto i governi in difficoltà. I leader europei, in testa Berlino e Parigi, gli rispondevano che non era possibile mobilitare questi aiuti, specie all’Italia, fino a quando aveva un governo irresponsabile che non garantiva di fare le riforme promesse per riportare la stabilità. Washington però non voleva avere parte in una congiura per eliminare l’ostacolo Berlusconi, che eventualmente dovevano sbrigarsi gli europei stessi.
Di sicuro, però, gli Usa non consideravano più il premier italiano un interlocutore credibile. Già il 30 giugno del 2009, quando imperversava il primo scandalo a sfondo sessuale sulle ragazze invitate nella villa in Sardegna, l’allora vice ambasciatrice a Roma Elizabeth Dibble aveva inviato al dipartimento di Stato un rapporto su Silvio con un titolo che non lasciava dubbi sulla bassa stima: «Girls, Girls, Girls», ragazze, ragazze, ragazze. Questa sembrava l’unica attività che interessava a Berlusconi, al punto che dietro le quinte alcuni funzionari della Casa Bianca lo definivano «radioattivo». Il presidente Obama, in altre parole, non voleva e non poteva neanche farsi vedere assieme a lui: le accuse di rapporti sessuali con minorenni lo rendevano infrequentabile, e qualunque foto con Berlusconi sarebbe stata usata contro Barack nella campagna presidenziale del 2012. Washington, del resto, aveva un’alternativa affidabile a cui rivolgersi, per gestire il rapporto con l’Italia: il presidente della Repubblica Napolitano. Con lui il rapporto era ottimo, e veniva considerato l’ancora di salvataggio istituzionale del Paese.
I canali si erano riaperti quando era diventato premier Monti, secondo Geithner «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e infatti era stato ricevuto alla Casa Bianca nel febbraio 2012. La sua caduta e sconfitta elettorale, nonostante l’aiuto del guru di Obama David Axelrod, aveva sorpreso e deluso gli americani, che però hanno trovato in Letta e ora in Renzi interlocutori positivi. La spinta riformista del nuovo premier è apprezzata, anche se a Washington molti si aspettano che quando avrà i primi risultati punterà alla legittimazione delle elezioni anticipate, perché le alleanze attuali lo frenano.