Carlo Petrini, la Repubblica 14/5/2014, 14 maggio 2014
QUEL NUOVO FEUDALESIMO NELLE NOSTRE CAMPAGNE
All’orizzonte delle nostre campagne si preannuncia un nuovo feudalesimo. Lo chiamano proprio così i giovani agricoltori che con sconcerto stanno constatando come la nuova Politica agricola comunitaria (Pac) possa, ancora una volta, trasformarsi in uno straordinario strumento di disuguaglianza e speculazione, invece di essere ciò che i padri fondatori dell’Europa vollero che fosse: un mezzo per limitare la distanza tra le opportunità di chi vive e lavora in città e di chi fatica sulla Terra Madre per produrre il cibo.
Il programma di aiuti europei che sono destinati al settore primario è appena stato varato e varrà dal 2014 al 2020. Ne abbiamo già parlato altre volte, sforzandoci di avere una visione più equilibrata di chi, da un lato voleva che la Pac rimanesse uguale a ciò che era stata in passato, quando aveva prodotto eccedenze e distorsioni importanti del mercato, e chi sosteneva che dovesse essere abolita, per dare sfogo al libero mercato, considerato la panacea di tutti i mali.
L’agricoltura europea è la più controllata del mondo, retta da istituzioni che finora si sono mosse con prudenza (e anche lentezza); è custode del 90% della superficie del vecchio vontinente, con un patrimonio di cultura e tradizioni unico per varietà e ricchezza. Aiutare i nostri contadini a rimanere tali, e i giovani che lo desiderano a ritornare alla terra, è un obiettivo meritorio e diventa un uso intelligente delle risorse (ingenti: oltre un terzo del bilancio europeo) che l’Unione europea mette a disposizione del settore: zone rurali curate e popolose sono, a tacer d’altro, la migliore garanzia contro i disastri idrogeologici. Ma queste risorse devono andare a chi davvero coltiva la terra e alleva professionalmente: non a speculatori che vivono a centinaia di chilometri dalla terra che conducono solo sulla carta o si danno un pedigree zootecnico liberando qualche decina di asini su latifondi. Una Pac che finanzia questi fenomeni replica gli errori del passato, rinverdisce il mito della Regina d’Inghilterra, un tempo prima beneficiaria della Pac ma non certo contadina, e ripropone logiche che ci paiono degne del Gattopardo, non del XXI secolo!
Il meccanismo è semplice e approfitta abilmente (fatta la legge, trovato l’inganno...) di una piega legale. Dal 2000 in poi il contributo agli agricoltori non è più stato collegato a quanto essi producessero: si voleva evitare di ripetere ciò che avveniva in precedenza, quando erano nate aziende per produrre beni non destial mercato, ma solo ai fini di ottenere il contributo pubblico. Era certamente una distorsione inaccettabile: la terra coltivata per produrre cibo che nessuno avrebbe consumato, di cattiva qualità, destinato magari a essere esportato sotto costo nel terzo mondo (producendo altri gravissimi guasti). Una vergogna cui si è posto rimedio separando l’aiuto agli agricoltori da quanto essi producessero: in gergo, si chiama disaccoppiamento. Tuttavia, poiché il vecchio sistema era una cuccia comoda e aveva fondato delle economie in cui prosperavano non solo certi agricoltori di grossa taglia, ma anche consulenti e organizzazioni, il disaccoppiamento non è stato totale: si è preso un certo anno di riferimento della produzione aziendale e si è stabilito di collegare a quelle quantità e varietà prodotte un titolo (come le azioni di una società, per capirci, che maturano delle cedole) su cui basare per il futuro l’erogazione del connati tributo. Insomma, si è detto: d’ora in avanti non guarderemo più quanto hai prodotto per decidere quanto pagarti, ma ci baseremo sull’anno X. Un metodo discutibile, a cui si aggiunge un ulteriore dettaglio: questi titoli, proprio come le azioni, si possono comprare e vendere. Inoltre i titoli danno diritto a contributi diversi, a seconda del tipo di coltura censito nell’anno X.
Un esempio vi chiarirà il tutto. Un imprenditore agricolo lombardo acquista titoli Pac relativi alla produzione del tabacco in Toscana (che valgono un contributo molto alto per ettaro) per 100 ettari. Dopodiché affitta i terreni di un Comune montano in provincia di Cuneo, che da secoli servono per portarci al pascolo gli animali nei tre mesi estivi in cui c’è l’erba invece della neve. Così, l’imprenditore riceverà il contributo dell’Unione europea come se su quei pascoli coltivasse il tabacco (ma non importa che non lo faccia: l’aiuto è disaccoppiato...). Ovvio che non sarà un problema pagare un profumatissmo canone di affitto al Comune proprietario dei pascoli, che prima, dagli allevatori che davvero li usavano per il loro scopo naturale, incassava molto meno, e di soprammercato potrà subaffittare i pascoli all’allevatore rimasto senza erba, che sarà ben lieto di portare le proprie bestie a pascolare nei luoghi di sempre. Così ecco all’opera il nuovo feudalesimo: l’Unione europea fornisce le risorse che rendono arbitro della vicenda un soggetto che si accaparra la terra, senza che sia un vero agricoltore, asservendogli, pur di continuare a lavorare e sopravvivere, coloro che sono davvero contadini e dovrebbero essere davvero sostenuti da Bruxelles.
È questo che vogliamo? È questa concorrenza sleale e inaccettabile tra agricoltori e allevatori veri, che conducono davvero la terra, e questi imprenditori delle carte e delle domande Pac, arricchiti con i soldi di tutti i cittadini europei? Lo chiedo in modo ultimativo ai nostri politici, al ministro Martina, che è competente e quindi perfettamente capace di capire quanto scrivo; lo chiedo a tutti i parlamentari e i consiglieri regionali che si riempiono la bocca della rappresentanza dell’agricoltura, in ogni occasione pubblica; lo chiedo ai sindaci, che in queste settimane chiudono i bandi (che i Comuni approvano) per i pascoli: chiarite se state con l’agricoltura vera oppure con l’agricoltura degli squali speculatori. E se dite di stare con la prima, fate qualcosa di chiaro. Subito.
Carlo Petrini, la Repubblica 14/5/2014