Marina Cappa, Vanity Fair 14/5/2014, 14 maggio 2014
INTERVISTA A DARIO FO
Appeso sopra il tavolo, c’è un foglio con scritto 58. Il 58 è una sorta di mantra anti-zanzare, foglietti così un tempo lei ne spargeva ovunque per casa, adesso è rimasto questo, come ad accudire i commensali che si riuniscono intorno al grande tavolo quadrato. Qui, sgombrate le tavole, i bozzetti e i colori su cui un pugno di giovani artisti diplomati a Brera e il Maestro (ma nessuno lo chiama così) stanno lavorando, arriva il risotto con latte e aglio che era una ricetta di lei e che lui ha rimescolato delicatamente fino alla giusta, morbida cottura.
Nella casa-atelier della campagna dietro Cesenatico, i dettagli di Franca Rame si trovano ovunque, ma nascosti sotto un velo di pudore. Sopra alcuni disegni, appare l’ingrandimento di due mani, quella di lei carezza quella di lui. Tra le foto di famiglia, con nipoti e bisnipoti, eccone una in controluce, marito e moglie di profilo, naso a naso. A una parete, in mezzo ai tantissimi quadri che Fo crea da anni, se ne nota uno con una donna incinta: è «Jacopo nel ventre di mamma Franca», ed è ispirato a una scultura di legno fatta dal figlio (Jacopo appunto, che oggi ha 59 anni), appoggiata poco più in là, grande dal pavimento al soffitto eppure sottile. Come grande e sottile è la mancanza di lei, scomparsa all’improvviso il 29 maggio del 2013.
Il prossimo 24 giugno avreste fatto 60 anni di matrimonio. Ha mai pensato a come lo avreste festeggiato?
«Non lo so, ci sono cose cui non voglio pensare, come il modo in cui la ricorderemo il 29 maggio. Ma certo avremmo festeggiato, anche se lei preferiva i compleanni (nata il 18 luglio, la Rame è scomparsa a 84 anni, ndr)».
Come ha vissuto quest’anno?
«Franca mi diceva: “Fermati un attimo, stai sempre in giro a lavorare, non esagerare”. Adesso che lei non c’è più io esagero, accelero, non sto mai fermo a pensare. Ho scritto La figlia del papa, il libro su Lucrezia Borgia che mi hanno chiesto in traduzione già in Francia, Spagna e Portogallo. E ora preparo una mostra su Lucrezia a Ferrara. Poi scrivo una storia su due re danesi del Settecento, e devo pubblicare un libro sui Comuni lombardi. Ecco, e poi mi dedicherò a Maria Callas, un’altra donna presa a pesci in faccia, passata dalle stelle alla palta, vittima di un mondo durissimo. Come Lucrezia: trattata da avvelenatrice e puttana, in realtà aveva bisogno di tenerezze e ha dato moltissimo, ha creato una banca per i poveri, ha difeso i deboli nei processi. Vede questa tela? È Lucrezia che torna in vita: quello è il senso della ricostruzione, della rinascita attraverso i sentimenti».
Tanto lavoro aiuta a vincere il dolore?
«La sua mancanza è un baratro. Ma in questa casa, che avevamo scelto trent’anni fa per allontanarci dal caos di Cesenatico e star qui insieme, ci sono tanti giovani che lavorano con me, ed è importante. Loro hanno conosciuto Franca, abbiamo passato estati tutti insieme, la loro presenza mi aiuta. E poi è bello sapere che ovunque la ricordano. C’è un paesino del Veneto dove hanno piantato un albero enorme e lo hanno dedicato a lei. Hanno ragione: Franca era la grande madre».
Com’è, vista da vicino, una grande madre?
«Lavoravamo insieme, facevamo tante cose, e lei aveva anche i tre bambini da accudire».
Tre?
«Oltre a Jacopo, c’erano i figli di suo fratello e di sua sorella, che loro non potevano tenere. Il fratello si era separato, la sorella era sola, lavorava tutto il giorno da sarta. Così i bambini, che avevano tutti circa la stessa età, stavano con noi. Franca li portava al mare, e intanto dovevamo preparare le nostre commedie, definire le idee per la nuova stagione, un periodo bello duro».
Mentre loro erano in spiaggia, lei che faceva?
«Dormivo, perché di solito scrivevo tutta la notte. Ormai per tutti ero diventato il “papà che dorme”».
Franca non pativa la fatica di essere compagna di lavoro e al tempo stesso madre così impegnata?
«Era bravissima a smorzare le tensioni, anche quando succedeva che ci fosse qualche litigio nella compagnia. È quella che si definirebbe una vera capocomica, una “regiora” che comanda e riordina».
Anche nell’organizzazione della vita quotidiana?
«Guardi, io non ho mai saputo nemmeno fare un assegno. Ci pensava lei, adesso tocca a Jacopo. Ogni tanto mi mette qualcosa davanti da firmare, e io firmo».
Una cosa che invece vi accomunava era la passione politica. Qualche mese fa è uscito il libro di Franca In fuga dal Senato, dove racconta le difficoltà di quell’esperienza in Parlamento fra il 2006 e il 2008.
«Aveva patito come una ferocia questa esperienza, il suo senso di inutilità, di non poter cambiare nulla, anche se qualcosa è riuscita a fare per difendere i diritti delle persone. E comunque la riforma di Renzi non le sarebbe piaciuta. Come non piace a me. Noi la politica la facevamo insieme, insieme eravamo arrivati a pensarla così».
Quando sua moglie, nel 1989, andò da Raffaella Carrà annunciando che le avrebbe chiesto il divorzio, causa tradimento: anche a prendere quella decisione eravate arrivati insieme?
«Proprio no, è stato uno shock. Certo, in casa ne avevamo parlato, anche Jacopo lo sapeva, ma così chi se lo aspettava. Però, anche in quel caso, Franca ha dimostrato di avere un fantastico senso del tempo teatrale, un ritmo perfetto, dicendo in faccia a tutti quello che stava succedendo».
Tutto vero, quindi?
«Certo, non è stata un’uscita così per dire. Mi ha cacciato via, per mesi è rimasta senza parlarmi. Se io andavo da Jacopo e lei era lì, quando arrivavo faceva le valigie e se ne andava».
Poi però ci ha ripensato.
«Sì, ci siamo riavvicinati, e alla fine nella nostra vita questo non è stato determinante. Sa, in tanti anni sballare un momento capita a tutti, e quella per me è stata una giusta punizione, oltre che una presa di coscienza del fatto che il rispetto è la cosa fondamentale che devi all’altro, alla persona che ami. E poi, i nostri amici lo sapevano: “Quelli non possono stare uno senza l’altro”, dicevano».
Però, se la Rame una sera del 1951, non l’avesse bloccata dietro le quinte dandole un gran bacio, forse lei non si sarebbe mai deciso.
«Storie, in un modo o nell’altro mi sarei buttato, questo amore non era possibile che non nascesse».
Sempre vicini per tanti decenni, eppure di voi si è sempre detto: «C’è il grande Dario Fo, e poi c’è Franca Rame». Come se lei fosse un’appendice.
«Chi fa teatro sapeva benissimo che non è così, era lei che aveva le decisioni in mano. Il fatto è che da noi se una donna ha successo ci si chiede sempre chi è il “lui” che l’ha aiutata».
Si sarà arrabbiata.
«No, diceva sempre: “Dario è il monumento, io sono il piedistallo, la struttura portante”. Il fatto è che senza di lei il monumento non ci sarebbe stato, sarebbe sprofondato nella palta».