Barbara Tomasino, Libero 14/5/2014, 14 maggio 2014
«CARO GABRIELE, SONO SAZIA DELLE TUE PAROLE DI VITA E CARNE»
Nell’intricata e rocambolesca vita sentimentale di Gabriele D’Annunzio la cui leggenda narra di oltre quattromila amanti una donna ha di certo avuto un posto privilegiato: la Divina Eleonora Duse. L’ingente volume curato da Franca Minnucci ed edito da Bompiani Come il mare io ti parlo, lettere 1894-1923 (pp. 1408, euro 30) raccoglie la lunga e copiosa corrispondenza tra i due amanti, restituendo, purtroppo, solo l’appassionata scrittura dell’attrice e di rimando, tra le pieghe delle sue parole, i pensieri e gli impeti amorosi del Vate. Sembra, infatti, che la Duse abbia predisposto la distruzione di tutte le lettere del poeta all’indomani della sua morte. Forse si è trattato di una vendetta per i tanti tradimenti subiti e per l’impietoso ritratto della loro relazione reso da D’Annunzio ne Il fuoco: l’attrice l’ha colpito lì dove sapeva di fare davvero male, nel cuore sacro della sua arte di scrittore; ma potrebbe anche essere un estremo gesto di pudore nei confronti di un sentimento profondo e lacerante che già aveva conosciuto troppo la ribalta delle cronache mondane e la trasfigurazione letteraria.
«VEDO IL SOLE e ringrazio tutte le buone forze della terra per avervi incontrato. A voi ogni bene. E ogni augurio. L.», questa la prima missiva datata settembre 1894, Venezia, scritta subito dopo l’incontro fatale tra la più grande attrice italiana regina anche dei palcoscenici internazionali e il poeta, figura controversa e immensa della cultura a cavallo tra due secoli. Lui è più giovane, un ribelle, un’esteta ossessionato dal tempo che fugge e dal vigore impetuoso come motore dell’universo, amante compulsivo e incostante, all’inizio della relazione con la Duse ha già pubblicato una serie di opere (Il piacere, L’innocente e soprattutto Il trionfo della morte che, narra la leggenda, ha fatto capitolare definitivamente l’attrice); lei è, al contrario, tutta interiorità, un’eterea figura romantico-decadente soggiogata da un’arte più grande della vita, schiva nel privato quanto iconica sulla scena, la prima interprete capace di portare sul palco lo struggimento identificativo in una chiave naturalista assai simile al metodo Stanislavskij.
Il loro è stato un amore travolgente e totale, perché al piacere sensuale si univa quello ancora più sublime dell’intelletto che vedeva D’Annunzio impegnato a scrivere modellando sillabe e punteggiatura sul corpo scenico dell’amata.
«Sera. Ecco la tua lettera, e ti rispondo. Vicina ti sono e tu lo sai. Tutti questi lunghi giorni ho vissuto ascoltando, e null’altro. Ho ascoltato, ogni giorno chi mi parlava di te, e non ho scritto, poiché di tante cose a dire, non avrei saputo sceglierne una. La mancanza di gioia paralizza la forza» (Parigi luglio 1896). Le lettere relative ai primi anni della loro storia testimoniano una passione sfrenata che, da parte della Duse, scivolerà nell’amarezza del disincanto, quando sarà chiaro ad entrambi che l’ora della fine scoccherà inesorabilmente. «La parola è un segno imperfetto. L’anima è intrasmissibile (...) anche nella più alta ebbrezza» (gli amanti restano, n.d.r.) «due, sempre due, separati, estranei, interiormente solitarii», profetizza il poeta ne Il trionfo della morte. La Duse, al contrario, cerca la “profondità” e risponde esausta, già al tramonto della loro relazione: «Non parlarmi dell’impero della ragione, della tua “vita carnale”, della tua sete di “vita gioiosa”. Son sazia di queste parole! Da anni ti ascolto dirle. Non ti posso seguire interamente, né interamente comprendere [...] Quale amore potrai tu trovare, degno e profondo, che vive solo di gaudio?» (luglio 1904).
Oltre alla straordinaria testimonianza di un amore turbolento, la raccolta accuratamente selezionata e catalogata in ordine temporale restituisce una sfera più prettamente artistica dell’attrice. Come alcuni studi fatti negli archivi della Duse hanno dimostrato, la Divina (affettuosamente chiamata Ghisola dal suo Bobolo) aveva l’abitudine di segnare i propri copioni come si trattasse di una partitura musicale: punteggiatura, simboli, variazioni di tempo, tutto serviva a restituire quell’ineffabile perfezione scenica che la trascinava attraverso una tecnica ineccepibile nella totale immedesimazione richiesta dal metodo e che hanno reso sublimi la sua Margherita Gautier e la sua Nora da Casa di bambola. Così anche le lettere, come sottolinea la Minnucci, sono: «Una parola musicale e sonora, una scrittura "ritmica e parlante» come l’ha definita D’Annunzio, che si esprime attraverso una precisa configurazione grafica (...) «Usa segni di tipo parafonico, una punteggiatura che non è funzionale alla grammatica o alla sintassi, ma che ha una esclusiva funzione espressiva-intonativa...».
L’ultima nota della raccolta a firma della Duse è priva di busta e data, ma potrebbe essere benissimo il presagio della fine di una donna stanca: «Soffro» e soltanto andarmene placa la mia pena. Non posso fare ciò che tu mi chiedi È più forte di me il dolore, niente altro sarò più forte della tua ragione». Nell’aprile del ‘24 la Duse si spegne per la tisi in solitudine in un albergo di Pittsburgh: sconfitta nel cuore e stremata dalla recitazione, cede il passo alla notte, mentre D’Annunzio devastato dal rimorso confessa: «È morta quella che non meritai».