Pietro Citati, Corriere della Sera 14/5/2014, 14 maggio 2014
IL TALENTO DI BARON CORVO BLASFEMO E ASPIRANTE PAPA SACERDOTE MANCATO, MILLANTATORE CAPACE DI AFFASCINARE
Frederick Rolfe, l’incantevole e mostruoso dèmone, che amava presentarsi sotto il nome di Baron Corvo, esercitava un grandissimo fascino su tutti coloro che lo conoscevano. Egli frequentava una famiglia: per esempio, i Pirie-Gordon. Tutta la famiglia si innamorò di lui, e per un’intera estate venne invitato nella loro casa di campagna. Rolfe indossava uno smoking di velluto color talpa, che gli permetteva di apparire come un personaggio misterioso ed elegante, ai pranzi e alle cene dei Pirie-Gordon e dei loro vicini. Gli ospiti erano colpitissimi dalla sua personalità: non tanto dalla sua cultura, che poteva essere estrosa e superficiale, ma dalla sua caratteristica intensità personale, che destava un vasto innamoramento interiore. «C’era, in lui, qualcosa di molto attraente e anche qualcosa di repellente, ma l’attrazione predominava, quando lui voleva», aggiunse un canonico che lo conobbe in quell’occasione.
Quasi sempre l’astuzia del Baron Corvo era doppia: da un lato, fingeva di avere la tenerezza, la molteplicità, l’affettuosità, l’amore per le menzogne di un ragazzo di diciotto anni: dall’altro, ostentava conoscenze e arti misteriose, come se fosse un dèmone celato in un corpo umano, simile a Faust o a Don Giovanni. Raccontava con grazia quello che aveva letto avidamente al British Museum o nelle biblioteche più recondite. Tutto quello che toccava diventava arcano e sacro: con particolare competenza, tracciava oroscopi, precisando perfino quando sarebbe stato opportuno fare un viaggio o una speculazione. I nuovi amici pendevano dalle sue labbra. Frederick Rolfe non aveva soltanto un nome e un cognome, ma anche un soprannome misterioso, inventato dalla sua megalomania narcisistica: «Baron Corvo», ereditato, secondo lui, da una nobile famiglia italiana.
Rolfe non si accontentava di essere amato e ammirato: voleva essere mantenuto sontuosamente, come un cortigiano italiano del Rinascimento o un gentiluomo francese del Seicento; soltanto così i suoi amici potevano sdebitarsi con lui per il genio che egli possedeva e loro non possedevano. A questo punto, si produceva un rovesciamento assoluto. Appena si sentiva amato e omaggiato, Rolfe sosteneva, al contrario di ogni verosimiglianza, di essere stato «provocato, diffamato, calunniato, malignamente abusato, travisato e falsificato»: mettendo in moto un gigantesco complesso di persecuzione, per metà volontario e per metà inconscio.
Così nasceva, in lui, la vocazione di offendere: arte in cui diventò supremo maestro. Pieno di un disprezzo satanico, si considerava in guerra contro innumerevoli nemici invidiosi del suo talento. Il complesso di persecuzione si trasformava in complesso di superiorità: la lingua si affilava, diventava caustica, perversamente concettosa, pronta a cogliere e a deformare i volti delle moltitudini dei suoi nemici. Prigioniero della ossessiva psicologia che egli stesso aveva costruito, marciva miseramente nelle proprie catene: la vita si limitava a gettare uno sguardo dalla lunetta del suo carcere e passava oltre: una corazza di gelida indifferenza o di attivo disgusto lo circondava: nessuno si sforzava di penetrarvi; ed egli stesso impediva che qualcuno vi penetrasse.
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Secondo Rolfe, la sua vita posava su una triplice scena archetipica: la conversione al cattolicesimo, avvenuta quando aveva ventisei anni (nel 1886): l’ammissione nel collegio cattolico di Oscott, nel 1887, come seminarista, e la cacciata due mesi dopo; e la nuova ammissione come seminarista al collegio scozzese di Roma, segnata, cinque mesi più tardi, da una nuova cacciata. Quale sia stata precisamente la ragione di questa espulsione non sappiamo. Nel Desiderio e la ricerca del tutto , Nicholas Crabbe (l’ombra di Rolfe) dice che «venne espulso all’improvviso, con tutto il contorno di maltrattamenti e di indegnità; lo gettarono fuori, nel cuore della notte, ridotto alla penuria e alla fame». Per questo, ribadisce Rolfe: «Ho un disperato terrore dei cattolici: non ne ho mai conosciuto uno (con una sola eccezione) che non fosse un calunniatore o un oppressore dei poveri o un bugiardo»; «Odio tutti i cattolici e non mi fido di loro».
Rolfe sosteneva che la chiave fondamentale della sua vita era la sacra Vocazione al sacerdozio. Obbedendo a questa vocazione, egli progettava degli ordini monastici, costituiti, organizzati e consacrati, nel costume medioevale, al servizio di Dio e alla ricerca della sapienza. Ma egli mentiva, anche se, probabilmente non sapeva di mentire, perché la menzogna abitava profondamente e di nascosto dentro di lui. Non possedeva nessuna vocazione religiosa: in tutti i suoi libri, anche quando parla il papa, non c’è una sola parola che renda un vero suono religioso. Egli non possedeva nemmeno una vocazione diabolica: o, almeno, il suo profondo istinto demoniaco non riuscì mai a presentarsi, capovolto, come uno spirito religioso di una qualsiasi tradizione. Rolfe amava soltanto una cosa: la recitazione religiosa; le gemme del rito cattolico; i riti della Settimana Santa, che Nicholas Crabbe assaporava come i bagni nella laguna.
Rolfe aveva un sogno supremo: indossare le vesti bianche del papa; e rappresentò il proprio desiderio nel più famoso (non il più bello) dei suoi libri: Adriano VII (1904: Superbeat, Neri Pozza, traduzione di Aldo Camerino), dove George Arthur Rose, il portaparola di Rolfe, diventa papa in seguito a un incidente inverosimile, accaduto durante il Conclave. Tra Rolfe e Rose c’era una fessura: attraverso la quale Rolfe guardava il suo doppio con amore, esaltazione, disprezzo: come se fosse insieme un santo e un guitto, un geniale attore tragico e un cialtrone. Non dimenticheremo mai la voce del papa: la voce proterva e blaterante, sfacciata, irriverente, capricciosa, smagliante, che dà un acceso movimento teatrale al libro. Nascosto dietro la figura di Adriano VII, Rolfe non riesce a contenere la propria gioia: mentre scrive il libro, sente di essere il papa: vive il suo libro; e si diverte follemente a parlare e a gestire come un papa, ad apparire dal balcone del Vaticano, a benedire la folla, ad accendere sigarette nell’appartamento pontificio, a percorrere Roma a piedi, a promulgare editti e encicliche, a scrivere lettere pubbliche ai popoli e ai re, con un candore e una megalomania quasi commoventi.
In due luoghi, Rolfe si rivela: «In verità, mi piacerebbe amare ed essere amato; ma fino a ora sono stato solo, solitario, e credo che dovrò continuare così sino alla fine». Quando un sacerdote gli chiede: «Figlio mio, amate Dio?», dal silenzio emana la risposta: «Non lo so. In verità non lo so». Non parla mai di amore, come gli imporrebbe la sua condizione di papa. Parla quasi esclusivamente, volubilmente, di politica estera, in primo luogo della passione rivoluzionaria che sta per travolgere la Russia, la Francia e il mondo civile. Davanti alla minaccia del socialismo e della rivoluzione, Adriano VII corre ai ripari. Da un lato rinuncia al potere temporale della Chiesa: ma, dall’altro, diventa un Pontefice autocratico, un nuovo e più inflessibile Bonifacio VIII, venuto a portare ordine e gerarchia, e a disegnare una nuova carta geografica della terra. Così egli proclama un nuovo impero romano: con due imperatori, uno del Nord e uno del Sud, Guglielmo di Prussia e Vittorio Emanuele III d’Italia; e considera quest’ultimo, non si sa bene perché, uno dei «quattro uomini più intelligenti della terra». Specie questa parte suscita nel lettore italiano una incontenibile ilarità: ma non dobbiamo dimenticare che Rolfe prende il proprio libro terribilmente sul serio, come il testamento politico-religioso dell’Europa moderna.
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Nell’agosto del 1909, Rolfe partì per Venezia, insieme a R. M. Dawkins, direttore della Scuola britannica di archeologia di Atene. Aveva posto tutti i vestiti e i manoscritti in una grande cesta da bucato, chiusa con una sbarra di ferro e un lucchetto; e portava al collo un crocifisso d’argento grande e pesante. Non aveva denaro: sperava di vivere alle spalle dell’amico archeologo. Ma questi abbandonò Venezia, lasciandogli qualche sterlina. Rolfe affittò un sandalo, e imparò a remare meravigliosamente alla veneziana, come se fosse stato egli stesso un gondoliere.
«Facevo il bagno tre volte al giorno — Rolfe scrisse — cominciando dall’alba fino a quando il tramonto avvolgeva tutta la laguna con fiamme di ametista e di topazio. Mi alzavo più volte in piena notte e scivolavo silenziosamente in acqua per una nuotatina di un’ora al riverbero di una grande luna dorata, o al tremulo luccichio delle stelle. Immàginati un mondo crepuscolare di cielo senza nuvole e di mare levigato, un mondo fatto tutto di eliotropio, di violetta e di lavanda … C’era qualcosa di tanto sacro, di tanto solennemente sacro in quel silenzio serale e notturno che avrei voluto non fosse turbato nemmeno dal lieve tonfo di un remo… Così indicibilmente bella era la pace della laguna, che nacque in me il desiderio di non fare nient’altro e di stare seduto ad assorbire le mie impressioni, immobile».
Presto tutto precipitò. Rolfe rimase completamente senza soldi: gli amici inglesi gli avrebbero mandato denaro se fosse tornato a casa; ma egli si rifiutò di tornare e coprì di ingiurie gli amici. Non voleva lasciare il suo paradiso terrestre, quel paradiso di acqua e luce, ora che l’aveva finalmente trovato. Lo si vedeva dappertutto con la sua immensa penna stilografica e i suoi strani manoscritti: impegnava le sue cose, una dopo l’altra, al Monte di Pietà. Nell’autunno-inverno del 1909-1910, visse sul pianerottolo di uno scalone di servizio. Più tardi soggiornò in un’isola disabitata della laguna, in una barca che faceva acqua, tutta coperta di erbacce e cozze accumulatesi nell’estate: così pesante che non riusciva quasi a spostarla con i remi. Se rimaneva in mezzo alla laguna, la barca poteva affondare; e lui correva il rischio di venire mangiato vivo dai granchi che con la bassa marea brulicavano nel fango dei fondali. Se gettava l’ancora presso l’isola, doveva rimanere sveglio tutta la notte, perché nell’istante in cui cessava di muoversi, lo assaliva una frotta di topi nuotatori, che d’inverno erano così voraci da attaccare persino l’uomo, e gli mordevano gli alluci.
Stava senza mangiare per sei giorni di seguito, o viveva con due panini (da tre centesimi) al giorno. Ogni tanto riusciva a farsi assumere come gondoliere privato. Sprofondò nell’abiezione e nel vizio: corrompeva ragazzi, seduceva innocenti, li vendeva ai suoi complici. Quando morì, il 25 ottobre 1913, nella sua stanza a palazzo Marcello, si trovò una grossa raccolta di lettere e fotografie oscene.
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Scritto negli ultimi anni di vita, Il desiderio e la ricerca del Tutto (Longanesi, traduzione di Bruno Oddera) è l’assoluto capolavoro di Frederick Rolfe: di una meravigliosa libertà, ricchezza e vastità di echi e profondità simbolica. Come nell’Adriano VII, vi sono molte pagine ispirate al rancore e alla mania di persecuzione: bisogna tagliarle con la mente, abolirle, dimenticarle, lasciando trasparire il luminoso «desiderio del tutto» e la tenerissima «ricerca». La cosa singolare è che proprio il periodo più abietto della vita di Rolfe abbia generato questo libro fondamentalmente puro, nato da un respiro platonico. Ricordiamo una frase di Kafka: «Nessuno canta più puramente di coloro che abitano nel più profondo degli inferni: quello che prendiamo per il canto degli angeli è il loro canto».
Nato sotto la costellazione del Cancro, Nicholas Crabbe, la nuova controfigura di Rolfe, era un granchio: durissimo all’esterno, con la sua fredda e sconcertante corazza e le chele pronte a ripiegarsi, ad afferrare e a ferire gli altri; e, dentro, morbido, tenero, dolce, una rete di ramificazioni nervose più fitta e sottile di una ragnatela, e più dolorante al tocco della carne viva. Come nel mito platonico del Simposio, egli cercava la propria metà: la metà perduta, tagliata da lui in una vita interiore. Attendeva l’altro: il divino amico, il Davide del suo Gionata, il Patroclo del suo Achille, l’Eva del suo Adamo e, attorno all’altro, la patria, la famiglia, l’amicizia, la casa, il mondo finalmente recuperato. «Del tutto aperto — scrive Rolfe — era il suo cuore, e protese le braccia, e nudo il petto, mentre con ogni fibra del corpo e dell’anima bramava, infiammato dall’avido desiderio di unirsi al compagno che insieme a lui avrebbe formato l’Uno, di fondersi e di dissolversi in lui». L’amore, muto nell’Adriano VII, era rinato; e si adempiva e giungeva al proprio culmine.
Tra le macerie di un villaggio calabrese, distrutto dal terremoto, Nicholas Crabbe salvò una ragazza sedicenne, Zilda, quasi asessuata, bianca come latte e miele, con folti e corti capelli castano chiari, iridi blu-verdi, un viso inespressivo, senza passione, candido e innocente. Zilda era l’androgino del mito e della letteratura. Univa il mistero, la tranquillità e la robustezza del gatto, lo splendore della statua greca d’oro e d’avorio, la soavità della madonna raffaellesca con i rossori e i pallori della sua leggera pelle di miele. Crabbe adottò Zilda come figlio, gondoliere e servo: la sua natura di omosessuale lo spingeva ad adorare nell’altro il ragazzo, occultando i suoi tratti femminei; Zilda doveva diventare la più docile delle cere, interamente modellata e plasmata dalle sue mani.
La parte finale del Desiderio ripete la sorte di Frederick Rolfe. Senza un letto, senza una lira, con in tasca un vecchio panino da tre centesimi, Nicholas Crabbe camminava per le calli e i ponti di Venezia: camminava senza meta per tutta la notte, sotto la pioggia o il nevischio, mentre nel cielo bruno risuonavano le ore. Se si distendeva sulla spiaggia aperta del Lido, un’ora bastava a impregnare le sue ossa di brina. Durante il giorno vagabondava da una chiesa all’altra: o delirando portava fiori alle tombe del Camposanto. Dopo essere rimasto otto giorni senza cibo e cinque senza dormire, solo l’acqua riusciva a saziarlo. Sebbene il suo corpo deperisse e la mente languisse, egli riusciva ancora a presentare al mondo un viso sdegnoso e offensivo.
In questi capitoli conclusivi, dove aleggia l’imitatio Christi , l’abiezione di Rolfe viene capovolta in una straordinaria nobiltà poetica e morale. Così il libro conosce un lieto fine negato al suo autore. Nicholas Crabbe raggiunge la stanza calda e fragrante, il nido amoroso di Zilda, e ritrova in lei la donna che si era rifiutato di conoscere. Le due metà separate si abbracciano. «Oh, mia, mia cara, mio caro, ti ho cercata per tutta la vita». Labbra aderiscono a labbra, e occhi fissano occhi lungamente. Petto preme petto, e cuore batte su cuore. Le metà, che si erano ritrovate, si dissolvono l’una nell’altra.
L’altra grande creatura, amata e idolatrata, la creatura nella quale fondersi e dissolversi ci sembra insieme naturale e impossibile, è Venezia: questa Venezia di canali chiusi e mare aperto, di tetti e di terrazze, questa Venezia di barche leggere e veloci, della quale conosciamo tutte le ore, i colori, i profumi, le piogge, le nevi, le notti, le estati soffocanti e le clamorose giornate primaverili. Qualche volta ritroviamo i crepuscoli, le lavande e le lune morte di Turner e di Ruskin. Ma è solo una nota. La Venezia di Rolfe è ancora la Venezia antica, fermata nel tempo, radiosa, vitale, trionfale, azzurra e violetta, la città di Tiziano e di Veronese, che appare per l’ultima volta a un uomo che sta per affondare nella morte.