Giuseppe Baldessarro, la Repubblica 14/5/2014, 14 maggio 2014
FEDERICO FUBINI
QUANDO si addormentava durante la discussione, i suoi consiglieri gli davano un colpetto per tenerlo sveglio. Silvio Berlusconi
non ha seguito tutti i passaggi del G20 di Cannes il 2 novembre del 2011, il giorno in cui Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e Barack Obama cercarono di convincere l’allora premier italiano a accettare un’offerta: un
aiuto del Fondo monetario internazionale.
Berlusconi rifiuta d’intesa con il capo dello Stato Giorgio Napolitano e Ignazio Visco, appena nominato governatore della Banca d’Italia. L’Italia non intende consegnarsi alla troika come la Grecia. Non fu una scelta facile: il rendimento dei Btp a 10 anni in quei giorni era intorno al 6% e prometteva di salire in fretta oltre il 7%. Fossero rimaste quelle le condizioni, il Paese non aveva alcuna possibilità di finanziarsi per oltre 400 miliardi nel 2012 come invece doveva fare a tutti i costi. Il Paese era il quarto più grande debitore al mondo con circa duemila miliardi: rischiava di diventare protagonista del più grande default della storia.
Era servita una lunghissima catena di eventi, non certo un complotto di pochi, per arrivare a un punto del genere. Anni di riforme rinviate o fallite e di tassi di crescita fra i più bassi al mondo, al pari di Haiti e dello Zimbabwe. E poi mesi in cui l’intero sistema di governo di Silvio Berlusconi sembrava sul punto di sgretolarsi dall’interno come un mobile tarlato. Non erano solo i leader di Berlino, Bruxelles,
Francoforte, Parigi o Washington ad aver perso fiducia. Prima ancora erano stati alcuni dei suoi alleati in parlamento e nella società italiana e, con quelli, i creditori esteri del Paese. Tre mesi prima di quel gelido vertice di novembre a Cannes, il 27 luglio 2011, Berlusconi aveva dovuto prendere atto di un documento senza precedenti firmato da Confindustria, sindacati e dall’Associazione delle banche italiane. Insieme, i protagonisti del sistema produttivo affermano che «serve discontinuità» per «evitare che la situazione italiana divenga insostenibile».
In quelle settimane questo è esattamente ciò che sta avvenendo. I dati della Banca d’Italia dimostrano che l’uscita degli investitori internazionali dall’Italia è stata troppo vasta
per essere stata coordinata. Nessun complotto. Semplicemente, la fiducia nella capacità del governo di gestire il debito e riformare l’economia evapora e gli operatori si tutelano: andandosene. A metà 2011 sono investiti su titoli di Stato del Paese 809 miliardi di euro. A fine anno i creditori esteri saranno scesi a 748 miliardi. Poiché nel frattempo la Banca centrale europea
ha comprato 100 miliardi di titoli nel tentativo di sorreggere l’Italia, significa che la fuga dei privati è stata di circa 160 miliardi in sei mesi. Gli investitori all’Italia di Berlusconi semplicemente non credevano più.
Non erano i soli. La successione di eventi dall’estate in poi rivela che la svolta invocata non c’è. Il 3 agosto Berlusconi interviene in parlamento e dichiara
sicuro che le sue politiche «sono state giudicate adeguate dall’Europa ». Due giorni dopo l’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet e il suo successore in pectore Mario Draghi gli mandano una lettera segreta che dice il contrario: le misure di riduzione del deficit. scrivono, «non sono sufficienti». Draghi e Trichet chiedono una riforma delle pensioni, l’apertura del
mercato del lavoro, tagli di spesa, più concorrenza. Berlusconi è spalle al muro. In quei giorni il rendimento dei titoli di Stato decennali ormai è salito al 6,4%, gli investitori fuggono in massa. Se il premier vuole che la Bce intervenga a comprare Btp per salvarlo, deve accettare i «consigli» di Trichet e Draghi e il 7 agosto spedisce alla Bce un fax in questo senso. Dal giorno
dopo l’Eurotower inizia a comprare titoli italiani e a fine agosto i rendimenti sono già crollati sotto il 5%. È allora che il premier improvvisa un ennesimo giro di valzer: rinuncia ad applicare la richiesta più importante della Bce, la riforma delle pensioni. Subito dunque la Bce smette di comprare Italia e lo spread riparte. Angela Merkel dirà che «quel giorno è cambiato il mondo»: non ci si può più fidare di una promessa italiana.
Non sono i leader europei a non fidarsi più. Il 26 settembre il presidente della Conferenza episcopale Angelo Bagnasco rilascia dichiarazioni dettate non solo dallo scandalo Ruby, ma dal senso di emergenza nel quale il Paese sprofonda. «La collettività guarda con sgomento agli attori della scena pubblica», afferma, invocando «gesti nobili e responsabili». Se è una richiesta di dimissioni del premier, la sua maggioranza va vicinissimo ad accontentarlo: l’11 ottobre il governo va sotto per un voto sul rendiconto generale dello Stato del 2010 e si scopre che Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, non ha votato. Berlusconi gli riserva in aula un plateale gesto di stizza.
È con bel altro tatto che invece Merkel chiama Napolitano dieci giorni dopo. Gli esprime il timore che Berlusconi non sia abbastanza forte per passare le riforme. I famosi risolini suoi e di Sarkozy sul Cavaliere arriveranno a Bruxelles pochi giorni dopo, ma la cancelliera ci aveva visto giusto: l’8 novembre, il governo non raggiungere il quorum in aula sul rendiconto dello Stato. Al premier non resta che salire al Quirinale nel giro di pochi giorni e dimettersi.