Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 13 Martedì calendario

DALLA LIBERIA AL LUSSEMBURGO, CACCIA AL TESORO


ROMA.
Quali ricchezze custodisce la cassaforte del latitante Amedeo Matacena? E dove è nascosta? Dei molti fili che l’indagine della Procura di Reggio Calabria ha afferrato, quello che il pm Giuseppe Lombardo e il sostituto della Direzione nazionale antimafia Francesco Curcio hanno deciso di tirare con decisione è quello che porta al denaro. Movimenti di capitali, fusioni societarie, beni immobili. Perché è lì — ne sono ragionevolmente convinti gli inquirenti — che potrebbero trovare risposta almeno due delle questioni chiave dell’indagine: le ragioni e gli interessi per i quali intorno alla figura e al destino dell’armatore calabrese si siano mosse insieme la ‘ndrangheta (che in Matacena, per dirla con gli inquirenti, avrebbe avuto la sua “interfaccia” e potenziale canale di riciclaggio) e il network di colletti bianchi che aveva nell’ex ministro Claudio Scajola il suo perno.
Sono per questo pronte a partire da Reggio due rogatorie internazionali. La prima ha come destinazione il Lussemburgo, dove hanno sede legale la “Seafuture sa” e la “Xilo sa”, due delle società in cui è frazionata la holding dell’armatore. La seconda raggiungerà invece la Liberia, dove risultano iscritte al registro delle imprese la “Amju International tanker ltd.” e la “Athoschia International ltd”, l’una e l’altra partecipate della “Amadeus”, società per azioni della famiglia con sede legale a Roma e uffici amministrativi a Reggio di cui è presidente Antonio Chillemi (uno degli indagati agli arresti domiciliari da giovedì scorso).
Nella ricerca della Procura — così come nella sistematicità con cui la scorsa settimana sono stati messi i sigilli a beni per 50 milioni di euro e tra questi alle società “Amadeus” e “Solemar” (a sua volta partecipata da “Ulisse
shipping srl”, Lidico srl.”, “Seafuture sa”, “New Life Unipersonale srl” e “Xilo sa”) — c’è un metodo e una consapevolezza acquisita durante le indagini della Dia. Di cui è traccia nell’ordinanza di custodia cautelare di Olga Tarsia, gip di Reggio Calabria. Vale a dire, che il sistema di scatole societarie concepito da Matacena sia servito nel tempo ora a dissimulare i flussi di denaro, ora la reale titolarità dei beni. Per impedirne evidentemente il sequestro, ma anche per evitare
di individuare possibili soci occulti o comunque inconfessabili dell’armatore. Ne sarebbe prova, nel giugno del 2013, il progetto di fusione per incorporazione della “Solemar srl” nella “Amadeus”, società controllata al 100 per cento (una cosiddetta “fusione inversa”), «logico completamento — scrive il gip — di un percorso di occultamento delle reali disponibilità della famiglia Matacena».
Insomma, «dopo una prima fase in cui i membri della famiglia Matacena ricoprivano incarichi diretti in ambito societario — scrive ancora il gip — si è passati ad una fase successiva, caratterizzata dalla operatività anche di imprese di diritto estero e dalla presenza di continui progetti di fusione finalizzati a schermare gli effettivi titolari e, quindi, i reali beneficiari degli utili prodotti dalle società che, alla luce delle indagini in corso, sono da individuarsi in Amedeo Matacena e nei suoi prossimi congiunti».
Una dissimulazione certosina con cui andrebbe letta anche la «separazione» di Amedeo Matacena dalla moglie Chiara Rizzo (da lui stesso resa nota nell’intervista a Repubblica da Dubai la scorsa settimana). Una “messa in scena” giuridicamente necessaria a rendere non aggredibile parte dei beni della famiglia. La prova indicata dal gip è in alcune intercettazioni telefoniche. In una, del 30 settembre 2013, la Rizzo parla con la ex moglie del fratello di Matacena, che «si congratula con Chiara per la decisione di separarsi da Amedeo ». «Chiara — scrive il magistrato — mostrandosi esterrefatta rispetto al fatto che tale informazione sia in possesso della sua interlocutrice, replica prontamente precisando che, “in effetti, non si tratta di una separazione” ». E ancora: lo stesso giorno la Rizzo chiama Martino Politi, un altro degli arrestati, con cui «si lamenta del fatto che qualcuno ha fatto circolare la notizia della separazione con Amedeo. Nella circostanza, Chiara alquanto seccata e nervosa per le voci diffuse, si rivolge a Martino: «... Ma poi non hanno capito della gravità se questa cosa si sa in giro!?».
Per restare alle carte, c’è un ultimo dettaglio. Quantomeno singolare come ogni circostanza che nella vicenda di Matacena incrocia il denaro e la politica. L’armatore disponeva ancora un conto corrente bancario a doppia firma con la moglie presso la tesoreria della Camera (acceso nel periodo in cui era stato deputato) che, secondo gli investigatori, sarebbe servito per far transitare la liquidità necessaria alla sua latitanza. A Dubai, prima e, in previsione, in Libano. In un’intercettazione telefonica del 5 febbraio scorso, Scajola lo chiede proprio a Chiara Rizzo: «Amedeo ha un conto corrente presso la tesoreria della Camera? ». E lei: «Si, l’ultima volta ho pagato versando ad Amedeo là». «Perfetto — è la conclusione dell’ex ministro — Risolveranno tutto in questo modo».

Giuseppe Baldessarro e Carlo Bonini, la Repubblica 13/5/2014