Stefano Vecchia, Avvenire 13/5/2014, 13 maggio 2014
AL PAKISTAN IL TRISTE PRIMATO
È l’Asia la regione in cui il fenomeno del rapimento di giovani non musulmane è quasi endemico. Nella maggior parte dei casi i sequestri sono lo “strumento” dei matrimoni forzati, oppure la conseguenza di faide tra gruppi rivali. E la reazione delle autorità a questi soprusi è diversa a seconda se, nello Stato, prevalga la legge religiosa o una tradizione giuridica laicista. Nel primo caso, il marito vede tutelati i suoi “diritti” dall’interpretazione più o meno parziale del dettato coranico, nel secondo la donna viene protetta laddove se ne accerti la coercizione. Se in Afghanistan una casistica specifica non emerge con chiarezza, così non è invece nel confinante e ben più popolato Pakistan. Qui, a meglio delineare il fenomeno del rapimento di cristiane è anche un recente rapporto pubblicato dal “Movimento per la Solidarietà e per la Pace”, una coalizione di organizzazioni non governative tra cui la Commissione Giustizia e Pace dell’episcopato pachistano. Il testo segnala che almeno un migliaio di cristiane e indù (le prime soprattutto nella provincia del Punjab, le seconde in quella del Sindh) tre 12 e 25 anni subiscono il sequestro e lo stupro prima di un matrimonio senza alternative, costrette a rinunciare a contatti con la propria comunità e spesso anche con le famiglie d’origine. A rendere più difficile venirne a conoscenza e ancor più intervenire legalmente contro gli abusi che coinvolgono soprattutto giovani di bassa estrazione sociale, non è solo la vergogna o la paura per la reazione che potrebbe colpirle o ritorcersi contro le loro famiglie, ma anche l’atteggiamento delle autorità. Per questo, davanti ai poliziotti o anche davanti a giudici, le giovani spesso non confermano la coercizione o la violenza, ma affermano di essersi convertite e sposate liberamente e questo blocca ulteriori iniziative legali che avrebbero come destinatari influenti notabili musulmani o i loro associati.