Francesco Erbani, la Repubblica 12/5/2014, 12 maggio 2014
TUTTE LE LINGUE DEGLI ITALIANI
Qual è l’aggettivo usato per indicare che un cibo è senza sale? Stare in piedi o stare all’impiedi? Lei adopera il pronome gli indifferentemente per il maschile e il femminile? Senza nessuna intenzione normativa, quella che vuole stabilire se si dice così e non così, due storiche della lingua, Annalisa Nesi e Teresa Poggi Salani, hanno guidato per oltre un decennio un gruppo di colleghi, e anche di studenti, di giovani laureati e dottorandi, che in 31 città hanno cercato di documentare l’uso e la consapevolezza che si ha dell’italiano. È stato uno sforzo notevolissimo, sostenuto dall’Università di Siena e patrocinato dall’Accademia della Crusca. E non per compilare un dizionario, ma per sondare la diffusione della nostra lingua, la sua articolazione regionale e locale.
Dove, quanto e perché si predilige ora rispetto ad adesso e in quali contesti, invece, si va sul mo’. Emerge la sostanza reale dell’italiano, spiegano Nesi e Poggi Salani, «il suo sapore», il valore effettivo di certi fatti lessicali, sintattici e morfologici. Non l’italiano scritto, ma quello parlato, corrente, che si adopera quotidianamente a Torino e a Lecce, a Livorno e a Nuoro, a Verona e a Latina...
Nessuna fotografia potrebbe restituire una realtà tanto variabile, se non immergendosi e navigando in una banca dati che accumula 80 mila voci. E anche tentare una sintesi di un materiale così vasto è difficile. Convivono comunque due tendenze, segnalano le ricercatrici. Una all’uniformità, alla distribuzione ormai omogenea dell’italiano in tutto il territorio nazionale, senza significative differenze fra Nord e Sud, per esempio. L’altra tendenza consiste nel conservare, comunque, una certa quantità di varianti rispetto allo standard, varianti che a loro volta si standardizzano, prime fra tutte quelle dialettali, ma non solo, con buona pace di chi dei dialetti ha più volte annunciato la morte. L’italiano è insieme una lingua comune e differenziata, scrive nell’introduzione Francesco Bruni. E ne escono confermati gli accertamenti del linguista Tullio De Mauro sui dati Istat: solo nel 2006 coloro che parlano sempre in italiano diventano la maggioranza relativa (45,5 per cento), superando di pochissimo quelli che usano sia l’italiano che il dialetto (44,1) e distanziando nettamente quelli che si esprimono sempre in dialetto (5,4), i quali erano ancora la maggioranza non un secolo fa, nel 1982 (36,1).
Lo studio è fondato su un questionario di 230 domande. S’intitola La lingua delle città (la sua sigla è LinCi), è composto di due volumi, uno con tutti i dati raccolti in un cd, l’altro contenente saggi scientifici (edito da Franco Cesati). Il lavoro viene presentato domani all’Università di Siena dalle autrici, dalla presidente della Crusca, Nicoletta Maraschio e da De Mauro.
L’indagine si muove su terreni in gran parte inesplorati (un lavoro simile fu compiuto nel 1956 da uno studioso svizzero, Rüegg). I campi del sondaggio sono le forme di saluto, il corpo umano, i mestieri, gli oggetti domestici, i cibi… Non si registra solo il parlato: si chiede a un campione di 12 persone in ognuna delle 31 città esaminate («ma il lavoro procede, anche se su base quasi volontaria essendo esauriti i fondi», spiega Annalisa Nesi), un campione appartenente a fasce di età e formazioni culturali diverse, di riflettere sulla lingua che parlano. Di dare risposte secche, ma anche di ragionare, di sondare opzioni diverse. Di fare, come dicono gli studiosi, una riflessione metalinguistica.
Torniamo all’esempio del pronome gli. «L’uso polivalente, per maschile e femminile, è maggioritario», dice Nesi, «senza sensi di colpa, fino all’ammissione della sua correttezza ». Ma, sollecitati dai “raccoglitori”, da chi porge la domanda, le persone interrogate si spiegano meglio: «Correntemente molti usano gli per il maschile e il femminile; io ci sto attento », dice un intervistato a Milano. E c’è anche chi aggiunge che, scrivendo, non si riferirebbe mai a un’espressione femminile con gli. Sorprendente, sottolinea Nesi, che i meno criticamente riflessivi sull’esistenza di una regola che può essere violata siano i toscani, «per la loro pretesa di “saper di grammatica”».
L’uso polivalente, ma scorretto, di gli, mostra comunque che le variazioni dallo standard italiano non sono solo dialettali. Anche se queste sono le più consistenti. Un altro caso citato da Nesi: «se potevo venivo» usato invece del più proprio «se avessi potuto, sarei venuto». «Risponde all’obiettivo, tipico del parlato, di economizzare», insiste Nesi. «È un fenomeno non nuovo, già riscontrato nei testi dell’italiano antico, poi contrastato dalle istanze normative del Cinquecento».
La domanda 113 chiede di esprimersi su un cibo “scarso di sale”. Insipido, spiegano Nesi e Poggi Salani, è stabilmente accertato nelle regioni settentrionali, in Sardegna e a Lecce («84 informatori su un totale di 96 in queste aree»). A Milano sussistono varianti minoritarie: dissapito, poco salato, dolce. Un intervistato se la cava con manca il sale. Un altro ancora con «in milanese si diceva fat, fato » . A Roma e in Toscana le resistenze sono più forti. Nella capitale domina sciapo, con una sola eccezione: poco saporito. La Toscana è compatta su sciocco, con la sola eccezione di Carrara, che ha influenze più settentrionali, dove torna a prevalere insipido.
« Sciocco è saldissimo e anche il parlante senese o livornese di buona cultura non sospetta neanche che questa minestra è sciocca si dice solo in Toscana».
Come per insipido si è poi fatto per fruttivendolo (che metà degli interpellati a Roma e tutti i reatini e i viterbesi chiamano fruttarolo) , per livido e per l’alternativa bernoccolo, per sette e mezza opposto a sette e mezzo, per calorifero, radiatore o termosifone, per abbi pazienza o porta pazienza.
«Sempre meno il rapporto tra italiano e dialetti viene percepito come conflittuale», aggiunge De Mauro. «Causa ed effetto di ciò è stato il diffondersi di un atteggiamento mutato nei ceti colti o, comunque, più istruiti. Nella scuola è cessata la caccia alle streghe dialettali e le realtà dialettali hanno goduto di una più benevola attenzione a vari livelli della vita intellettuale ». Nel Gradit, il Grande dizionario della lingua italiana dell’Utet, sono ottomila le parole diffuse sul territorio nazionale, ma di origine dialettale. Per contro l’italiano è diventata «la lingua del cuore “che da ciuchi l’impareno a l’ammente e la parleno poi per esse intesi”, come diceva il popolano di Giuseppe Gioachino Belli». Nonostante i limiti più volte segnalati sempre da De Mauro: quel trenta per cento scarso di italiani, tendente ancora a diminuire, che con sufficiente sicurezza si orientano fra libri, giornali, istruzioni di farmaci, informazioni bancarie, documenti legislativi.
Francesco Erbani, la Repubblica 12/5/2014