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 2014  maggio 12 Lunedì calendario

IL MIO PIANO PER LE PERIFERIE


ROMA
Pronunzia la parola «ecomostro» con una sfumatura canzonatoria che mi fa capire, meglio dei discorsi, perché ama tanto la periferia, «la terra di frontiera che accende l’immaginazione, eccita il desiderio, quella vita che sta ai margini della vita ma è più vita della vita».
Stiamo passeggiando su due chilometri di niente urbano, una linea tranviaria abortita che avrebbe dovuto collegare Saxa Rubra e Cinecittà, orrore reso famoso dal saccheggio dei tombini che, nel gennaio scorso, i predoni della ghisa portarono via di notte, con i martelli pneumatici, per rivenderli al mercato nero dei metalli. È il “viadotto dei presidenti” che, con Eloisa Susanna e Francesco Lorenzi, due dei sei ragazzi di bottega pagati con lo stipendio di senatore, Renzo Piano vorrebbe trasformare «in una High Line romana, dal parco delle Sabine al parco Talenti, due km di sopraelevata verde a conferma che i mostri non sono mostruosi». Ci sono due stazioni complete di piazzetta, aiuole e passaggi per disabili, e forse ci sono anche i fantasmi. In basso, sotto i piloni, si accumula la spazzatura che presto puzzerà: «Non è un mondo dismesso, ma un mondo che non è nato. Perciò non bastano gli spazzini, bisogna portarci la gente, i valori comuni, l’urbanità ». Sembra una strega che, a cavallo di una scopa, cerca i sentieri degli incantesimi: «Il rapporto tra la luce e il colore è quello magico della campagna romana: se pianti gli alberi questo cemento diventa una foresta». Qui passano il Tevere e l’Aniene e i pini a ombrello sono bellissimi. Arriva in bicicletta un signore anziano senza denti, è arrabbiato con il mondo, vorrebbe sterminare gli immigrati: «Venite da quest’altra parte e guardate qui sotto: “quelli lì” hanno piantato le tende, e gli danno pure il permesso di soggiorno».
Anche lui è un mostro di periferia? «Esprime, pur malamente, un amore per questi luoghi che nega l’idea stessa di periferia come deserto di affetti». Dieci anni fa, Piano portò Ermanno Olmi al Parco Lambro a Milano: «Scoprì che, nonostante l’alta densità criminale e il degrado, per tutti quelli che vi abitavano era “il posto più bello di Milano”. Ecco: il posto più brutto è anche il più bello». Non sarebbe meglio, domando, ricorrere alla santa ruspa e demolire tutto? «No, la demolizione è un grido d’impotenza. È spettacolare ma sbagliata e ben più costosa del rammendo». Eccola, la parola “rammendo”. È piaciuta a Matteo Renzi e tutti ne fanno uso. «Fin troppo». Non bisogna demolire mai? «In rari casi. Per ragioni igieniche, ambientali o sismiche ». E il muro di Berlino? «È stato un errore abbatterlo. Sarebbe stato molto bello averne lasciato alcune parti: il muro che dava identità attraverso la mortificazione oggi sarebbe il muro della libertà conquistata».
A destra e a sinistra fischiano le auto e, più in là, spezzoni di periferie interrompono la campagna, «non ci sono solo casermoni informi, grigi e già consumati che sporcano la dolce linea dei colli; sarebbe facile farli entrare in comunione, che è già una forma di bellezza». Sono i quartieri di Serpentara, Fidene, Val Melaina, Vigne Nuove: «Bastano poche bretelle di collegamento. I semafori sincronizzati rallenterebbero il traffico e anche il rumore diminuirebbe». Non c’è lo spettacolo di New York ma Piano “vede” già «la pista ciclabile e pedonale che unirebbe due parchi attraverso un parco lineare, invenzione originale di biologia e botanica oltre che di architettura del paesaggio urbano. Potrebbe diventare un modello. E a Roma un rammendo come questo, che non mi pare molto costoso, potrebbe innescare un processo virtuoso dando senso a un’insensata opera pubblica mai finita, che è un’altra specialità italiana». E vuol dire che l’insensatezza lo rende il più brutto dei viadotti italiani, che sono teatri della violenza seriale: i sassi dal cavalcavia, le crocifissioni delle prostitute… A Roma, che è la città dell’ironia, la crudeltà si concentra nella toponomastica: “viadotto Gronchi” e poi “viadotto Saragat”. «I nomi fanno i conti con la realtà e la grandiosità diventa beffa».
Dove comincia la periferia? «Se ci fosse un confine non sarebbe più periferia». Costeggiamo un mini Corviale, palazzoni grigi di edilizia popolare: «Sono le zone suburbane dell’umanità confinata che, a prima vista, sembrano uguali dappertutto. E però, guarda: quelle torrette rotonde sono belle». Poi si entra a Montesacro e l’edilizia diventa più aggraziata: «Queste sono le case popolari di una volta, quando si regalava ai poveri quel che era bello anche per i ricchi, che è l’essenza della generosità. Poi hanno cominciato a regalare porcherie». La vicepreside Alma Talu ci accoglie nella sua scuola, un edificio fascista di marmo e mattoni, che «nel 1972 — racconta — le famiglie del quartiere occuparono perché volevano una scuola». Piano, solidale, le mette la mano sulla spalla: «Anni terribili ma straordinari. A Parigi io facevo il Beaubourg, a Londra e a New York c’era la rivoluzione sessuale e qui voi trasformavate un territorio abbandonato in una scuola che ora ha 1.500 bambini». Quarant’anni dopo, questa scuola che non ha neppure un nome, ogni tanto “avanza” ancora e occupa spazi incolti che «genitori e insegnanti puliscono e attrezzano ». Piano si offre alla pirateria: «Ci chiami, se ha bisogno di aiuto per “avanzare”». Questa scuola «è un magnifico monumento allo squatter », una parola che, passando attraverso il francese antico exquatir , viene dal latino cogere , più esattamente dal participio passato coactus. E infatti “coatto” a Roma è chiamato l’abitante della periferia, il ghettizzato, l’emarginato, lo sradicato. «Ma questa non è periferia » rivendica con dolcezza la vicepreside, «ed è molto meglio che in centro». Dice Piano: «È un bell’esempio di periferia affermata con una negazione». E ancora: «Bisogna sempre iniziare dalla scuola che è importante come l’acqua corrente, l’elettricità e il panificio». Si possono davvero rammendare gli edifici scolastici degradati? Qui la stabilità è stata rinforzata con una putrella d’acciaio collegata a dei tiranti e avvitata al muro: «È un buon esempio di rammendo, senza grandi spese e senza chiudere la scuola per lavori. Ma è fondamentale la buona diagnostica che sola ti consente il cantiere leggero, il piccolo intervento d’amore».
E Piano fa uno schizzo, un arco, il tufo che indurisce con l’umido... Ogni volta che vuole sottolineare un discorso, invece di agitare le mani, l’architetto disegna: su un tavolo, su una scorza d’albero, sulla tovaglia del ristorante. E ora, alto e magro com’è, piega le gambe elastiche come un ufficiale di cavalleria e disegna per terra, e tutti si piegano con lui: «È un modo di prendere appunti. E, come tutti, io stesso poi non li capisco». Ci sono pure due grandi piscine di marmo abbandonate, una coperta e l’altra scoperta, con il trampolino in pietra: «Sembra di vedere l’Italia della ginnastica nell’inaugurazione del 1934». Sono le cinque del pomeriggio e batte ancora il sole: «Credo che rimettere in funzione la piscina scoperta non costerebbe molto. Certo, se si dovesse passare dalla Sovrintendenza, i costi aumenterebbero. Ed è un altro paradosso questo delle cose giuste e dovute che fanno male. Guardate questi tappeti di gomma nera applicati sul marmo per aiutare i disabili. Fanno benissimo a metterli, ma perché così storti e brutti?».
Torno l’indomani, quasi a mezzogiorno, al mercato del Tufello. È la borgata che fu costruita con materiale di scarto della speculazione edilizia, la zona cantata dal rapper Rancore: “Giro cor cortello quando giro per Tufello / giro cor cortello quando passo di qui”. È facile essere mandati a quel paese. Un giovane pescivendolo, provocato, offre stati d’animo: «Ma che periferia, te poi gratta’ er cazzo dove te pare, ma se te lo gratti ar Tufello, fai scintille». Mi dice pure il nome, mi pare napoletano, Giuseppe Abbatino: sei nato qui? «Sì, ma so’ egiziano». Che fa tuo padre? «Faceva il muratore». Morto? «No. Disoccupato». Piano mi dice che «gli abitanti delle periferia negano che il loro quartiere sia una periferia. Rifiutano il sostantivo che è diventato aggettivo dispregiativo. Non vogliono essere periferia. E invece hanno ragione giovani e artisti che sempre più rivendicano con orgoglio il sentirsi periferia come motore, anche etico, di una creatività che spesso nella Storia si è espressa nel cosiddetto pensiero laterale, in ciò che sta di fianco, che è fuori norma, diverso e sorprendente, che si spinge oltre il Centro delle abitudini consolidate: il pensiero è periferia. Posso ben dirlo io che sono nato nella periferia di Genova dove “le montagne — dicevano i rivali veneziani — sono senza alberi e il mare senza pesci”. È ovvio che il Tufello affascini perché è un luogo dove ancora si costruiscono i sogni. A me piacerebbe che qualcuno dei miei giovani architetti ci venisse a vivere, ci prendesse casa. Se avessi 20 anni ci verrei io». Espongo il progetto di Piano ai ragazzi che vendono il pesce e non sanno nulla della sopraelevata di New York: «Noi er parco ce l’abbiamo già, ma è abbandonato. Ci portano i cani a pisciare». C’è il rischio che il degrado si riprenda domani quello che gli viene tolto oggi? «C’è il rischio — dice Piano — perché il futuro è sempre un rischio. Solo i conservatori pensano che il futuro sia opera del diavolo. Le periferie sono il futuro. In ogni città almeno l’80 per cento degli abitanti vive in periferia ». Il degrado dipende solo dalla cattiva politica? «No. Ci vuole l’amore, fosse pure sotto forma di rabbia, ci vuole l’identità, ci vuole l’orgoglio di essere periferia». Organizziamo il “Periferia Pride”? «Sarebbe ora».
Decidiamo di chiamarlo “Coatto Pride” perché il futuro dell’umanità è nelle mani sue, del coatto, che vuol dire sospinto, pressato, col corpo incassato in se stesso e dunque rannicchiato, seduto sulle calcagna come un indiano, accoccolato come un rospo, accovacciato attorno al fuoco che è la maniera più semplice e selvaggia di impossessarsi di un terreno, magari mentre il pascolo bivacca, «perché la periferia è anche uno stato d’animo, può significare rinchiudersi e farsi rinchiudere ma anche diventare abusivi e abusare di quei “frammenti di città felici che — ha scritto Calvino — continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”. A vent’anni a Milano per me la musica era il Capolinea, famoso locale di periferia lungo i Navigli. È diventata città, poteva diventare barbarie ». Canta Rancore: “Prima o poi, supererai la paura del buio… / Un mondo più bello di questo dov’e?”. Il titolo del rap è “Capolinea”.

Francesco Merlo, la Repubblica 12/5/2014