Carlo Bonini, la Repubblica 12/5/2014, 12 maggio 2014
DAI PREFETTI AI COSTRUTTORI, LA RETE DI SCIABOLETTA
ROMA.
Scopriamo ora dalle intercettazioni telefoniche della Dia di Reggio Calabria che Claudio Scajola, da Stefano, il suo caposcorta, si faceva chiamare “signor ministro”. Anche se non lo era più da quattro anni ormai. Anche se Stefano gli era stato assegnato quando lui non era più neanche parlamentare. E tuttavia, in quel sussiego, c’era evidentemente qualcosa di più del rispetto untuoso che si pretende dai “sottoposti”. Negli ultimi tempi, raccontano infatti che nonostante fosse visibilmente provato politicamente, non rinunciasse ai modi ora arroganti, ora ammiccanti, di chi ancora pensa o è convinto di contare. Come un ministro, appunto.
Scajola sognava un Pdl2, che qualcuno aveva battezzato il “Pdl di Ponente”, e per questo continuava a coltivare instancabilmente la rete di rapporti, il sistema di relazioni e interessi degli ex dc di cui era figlio. Quello che, nel ‘98, lo aveva fatto diventare quel che era diventato e che dodici anni in Parlamento, dieci dei quali da ministro (Interno, Attuazione del Programma, Attività Produttive, Sviluppo Economico), avevano trasformato in una potente anche se ormai declinante lobby tascabile.
Ne hanno fatto parte nel tempo prefetti, imprenditori, costruttori, armatori. «Solo al Viminale — spiega una fonte qualificata del Dipartimento — sono una trentina i prefetti che devono molto a Scajola. E altrettanti sono stati nel tempo i questori ». Da ministro dell’Interno, la sua longa manus era stato il suo temuto capo di gabinetto, il sorrentino Raffaele Lauro, che avrebbe poi fatto eleggere nel 2008 in Campania nelle liste del Pdl e portato con sé quale “consigliere politico per la sicurezza” allo Sviluppo Economico.
Sappiamo dalla cronaca che i due anni al Viminale, lo avevano agganciato agli Anemone, i costruttori del G8 della Maddalena e uno dei perni del Sistema degli appalti pubblici scoperchiato dall’inchiesta della procura di Firenze del 2010. Ma sappiamo anche, per quanto emerse nell’indagine sul porto turistico di Imperia, di quale grana fosse il suo rapporto con un altro re delle costruzioni: Francesco Bellavista Caltagirone, presidente del gruppo Acqua Marcia, che di quel porto doveva essere il costruttore.
«Sono amico di Scajola e non mi vergogno a dirlo», diceva Caltagirone dell’ex ministro nel 2013. «È stato il promotore dell’operazione porto turistico, poi però è stato il primo a defilarsi. Non ho condiviso questa sua scelta, sono rimasto deluso. Ho sempre considerato Scajola un punto di riferimento. L’operazione porto avrebbe potuto creargli una rendita politica per i prossimi dieci anni». Già, il porto di Imperia e Caltagirone.
Per dirne una, la Dia di Reggio, durante le indagini che hanno portato in carcere Scajola, ha annotato le frequentazioni che il costruttore aveva cominciato ad avere con Chiara Rizzo. E la stessa Dia sembra coltivare l’ipotesi investigativa che in questo incrocio Matacena-Scajola-Caltagirone si stessero ponendo le premesse per un’avventura nel settore immobiliare in quel della Costa Azzurra, dove l’interesse delle cosche calabresi è sempre stato e resta molto forte.
Del resto, è proprio a quell’inchiesta sul porto di Imperia, da cui peraltro Scajola uscirà penalmente indenne, che si deve l’ultima nitida fotografia del “sistema Scajola”. Un reticolo tenuto insieme da un familismo amorale dove la politica è regolarmente a braccetto con gli affari e, gli uni e gli altri, affondano in rapporti costruiti sulla colonna del “dare” e “avere”. Valga per tutti, una figura come quella di Pietro Isnardi, re degli olii. Da consuocero di Alessandro Scajola, fratello di Claudio, Isnardi siede nel consiglio di amministrazione della Fondazione Carige. E, guarda caso, è proprio Banca Carige che vanta insieme un’importante esposizione verso Francesco Bellavista Caltagirone e altrettanto importanti crediti nei confronti del gruppo oleario Isnardi.
Andavano così le cose nel Ponente di Scajola. E, neppure nel dicembre del 2012, l’ex ministro sembrò afferrare (o forse e, al contrario, lo comprese molto bene) il senso profondo dell’operazione antimafia che portò allo scioglimento per infiltrazioni mafiose dei comuni di Bordighera e Ventimiglia. La Provincia di Imperia — documentarono le indagini — era stata infatti scelta dalla ‘ndrangheta per radicare una propria “locale” che doveva fare la parte del leone negli appalti pubblici.
Ora, appunto, in un’inchiesta come quella di Reggio, quell’intreccio ritorna. E, non a caso, è proprio sulla lobby che in Scajola ha avuto il suo pivot che torna ad accendersi un faro che promette sviluppi in qualche modo sconvolgenti. Non fosse altro per i titoli di reato che ipotizza. Mafia e associazione segreta. Qualcosa che, se dimostrata, cancellerebbe quell’immagine in fondo cialtrona che l’ex ministro si è sempre portato dietro nei momenti (frequenti) delle sue disgrazie giudiziarie.
Carlo Bonini, la Repubblica 12/5/2014