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 2014  maggio 12 Lunedì calendario

GIORGIO, PINO O E GLI ALTRI: LA BANDA DELLO SCUDETTO


Nel giorno in cui si dipinse il quadro della storia, “Carta velina” rimase fedele al soprannome. I tifosi impazziti, a correre nel prato dello stadio Olimpico con le bandiere al vento e Maestrelli quasi trasparente, ad aspettare i figli suoi, l’abbraccio dei gemelli, mentre il sole, a lame, illuminava il primo scudetto della Lazio. Sul pullman guidato da Alfredo c’era un silenzio strano. Non l’avevano immaginato così il 12 maggio 1974, i bravi ragazzi allenati da Tommaso. Gli allievi del “Maestro”, partiti come sempre dall’albergo fuori città, l’Hotel Americana di Roma, tredicesimo chilometro dell’Aurelia, qualche debito nominale con Alberto Sordi e arrivati recitando da marziani dall’altra parte della Luna. Con gli spogliatoi divisi, i clan rivali, la mania per il gesto d’annunziano e il piacere di sparare a un lampione in piena notte, la Lazio di quarant’anni fa rappresentò il manifesto collettivo di una banda in fuga. Undici inafferabili su cui fu inutile mettere una taglia. Undici eroi inattesi, in gran parte reclutati a costo zero nelle stanze fumose del calciomercato estivo al Gallia di Milano, capaci di sovvertire l’ordine celeste del pallone aggiungendo il bianco all’azzurro. La memoria al mito. La rete decisiva di Chinaglia in Lazio-Foggia. Quel tiro che alza polvere e gesso con la voce di Enrico Ameri, nel brulichio eccitato dello stadio in sottofondo, che annuncia da Tutto il calcio minuto per minuto l’esatta distanza tra desiderio e giorno perfetto: “Attenzione, attenzione, deve esserci un calcio di rigore, Scusa Ciotti se ti interrompo, ma c’è un calcio di rigore a favore della Lazio”.
IL RIGORE DECISIVO
Del risarcimento delle sofferenze passate e future, dopo il fischio dell’arbitro Panzino, giudice non pretesco nella domenica del divorzio, si incaricò Chinaglia dagli undici metri. La fotografia definitiva che impose i colori della Lazio a un prisma che nell’Italia del ’74 amava tonalità accese – rosso e nero in dominante prevalenza – improntate alla cupezza e al lutto. Ebbe i propri anche l’Arca di Re Cecconi e Frustalupi, con i suoi Re semplici e i suoi santi maledetti, selvaggi e molto più sentimentali di quanto non raccontasse il resoconto di un’onda troppo alta, di una curva affrontata con eccessiva fretta. Li attraversò con il dolore non banale di una comunità nata per caso, con la stessa aderenza carnale, ebbra, eccessiva con cui aveva accolto i giorni lieti. L’incoscienza era quella dei predestinati. Il gioco, modernissimo, aveva come unica prudenza, come solo ancoraggio al passato, il libero dietro alla linea difensiva. Il resto era bellezza. Coraggio. Sovversione. Tensione interna. Partitelle accecate dai fari delle macchine private al campo di Tor di Quinto. Sfide in famiglia prolungate oltre il lecito. Duelli che nessuno voleva perdere e il calciatore con il nove sulle spalle che mandò a fare in culo Valcareggi in mondovisione, non sopportava di non vincere. Spirito. Voglia. Fame. Un vento che a dieci anni dall’ultima pubblicazione ancora soffia su uno dei libri più sinceri e riusciti della letteratura sportiva italiana.
L’ha scritto un bravo giornalista di La7 cresciuto tra i palazzoni del Tuscolano. Nel 1974 aveva cinque anni. Per spolverare l’epica della Lazio che fu, ha indossato l’elmetto. Con il nome letterario di uno sfortunato tennista francese, il cognome esposto al più basso doppio senso e il talento anacronistico di chi non scrive se non vede, Guy Chiappaventi ha riannodato i fili. Abbracciato le illusioni. Osservato le amicizie diventare lettere transoceaniche dalla grafia incerta. Trasformato la leggenda in verità. In Pistole e Palloni, meritoriamente rimesso in circolazione da Castelvecchi (Ultra sport, 237 pagine, 16,50 euro), brillano senza moralismi i ritratti di undici uomini a contatto con il proprio tempo. Le esagerazioni di un gruppo di irregolari che rese sogno la semplice volontà e seppe guidare tra le nuvole come accadde solo al Cagliari di Riva, al Verona di Bagnoli o alla Sampdoria di Zio Vuja.
GLI UNDICI DA ODDI A D’A M I CO
Nel volume di Chiappaventi – l’educazione sentimentale di tutti i nostalgici delle galline al guinzaglio di Zigoni, dei presidenti del miracolo come il Sor Umberto Lenzini, così scaramantici da tirare un rigore fasullo nel ventre dell’arena prima dell’inizio, della tangibile umanità del calcio poi pervicacemente esiliata dal robotico Truman Show contemporaneo – scorrono le biografie del comandante Gigi Martini e dell’orgoglioso borgataro che tutti chiamavano “Tufello”, Giancarlo Oddi. Di Vincenzo D’Amico e del terzino d’attacco Pedro “Pedrelli”, quello che appoggiava il fucile vicino alla tv, oggi vive a Lampedusa e all’epoca aveva iniziato involontariamente il resto della truppa al culto della pallottola.
La polvere da sparo, vezzo puro e immaturo e non firma ideologica di un’ipotetica matrice fascista della squadra, era la Santabarbara per uccidere ormoni e noia di un’età e di una fortuna di difficile gestione. C’era Roma, con i suoi Night, la dolce vita che nel ricordo, all’ala Renzo Garlaschelli, dieci anni di lazialità felice: “Maestrelli in fondo non mi chiedeva molto, solo di correre e saltare l’uomo” fa giurare di “non aver cenato una sola volta a casa”. E c’era la violenza metropolitana. L’ossessione dell’assalto che rapinò l’esistenza a Re Cecconi, il “Cecconetzer” che volava a centrocampo, ricordava le statue in pantaloncini del Borussia, sembrava un tedesco e a cui senza senso, colpa né giustizia, la revolverata di un gioielliere aveva tolto le ali dietro una porta blindata del quartiere Fleming nel gennaio del ’77. Ma la politica era poco più di un acquerello e forse, ricorda oggi Felice Pulici: “Nel generale disinteresse per l’argomento, l’unico vagamente di sinistra, più per ascendenza geografica che per profonda convinzione, era Frustalupi”.
LA FISCHIO FINALE E LA FESTA
Al resto, a tenere insieme la goliardia e la protervia di un Chinaglia che per dimostrare la frangibilità di un orologio a Polentes non trovava di meglio che distruggerlo tra gli sghignazzi dei compagni e il pentimento successivo di Giorgione e la sua generosa mano dentro al portafoglio volta a risarcire, pensava Maestrelli. La sera in cui non si è ancora spenta l’eco delle radioline: “Sono le 17 e 45 del 12 maggio, da tutti i settori del campo convergono i tifosi che hanno atteso in maniera spasmodica questo momento” e i suoi occupano militarmente fino all’alba il Jackie O’, Maestrelli torna a casa dalla moglie. Ha il volto felice di chi non può aspirare ad altro, la cangiante leggerezza delle persone serie che sanno quando cedere alla commozione. Tom Maestrelli, figlio di ferroviere tradotto da Pisa all’Adriatico pugliese, era arrivato a Roma per sostituire Juan Carlos Lorenzo nello scetticismo e a Roma invece rimase, fino alla morte e ben oltre l’addio, Papa beatificato dalla gratitudine e dal dispiacere per la sua scomparsa prematura. Chiappaventi lo accompagna in un raro lato pubblico in cui l’unico dogma è assumersi, nel bene e nel male, tutte le responsabilità a cominciare da quelle su cui non ha paternità alcuna. E in una sfera privata così delicata da far impressione. A Massimo e Maurizio, i figli che a scuola il lunedì proprio non vogliono andare, offre una predica per la sera: “Niente storie, domani vi sveglio alle otto” e un orizzonte diverso la mattina dopo: “Forza, vestitevi. Andiamo al campo”.
L’ULTIMO SALUTO A MAESTRELLI
Era confessore e nocchiero, apriva la porta di casa agli amici a qualsiasi ora. Indossava uno scaramantico montone marrone, ospitava Chinaglia nelle notti tempestose e andava a cena con l’Avvocato Agnelli. Al mare, che aveva visto in gioventù, anche nel calvario del tumore e della chemioterapia, tornava. Erano semplici richieste alternate alle preghiere: “Lina, cucinami il pesce”. Quando il 28 novembre 1976, il Maestro entra in coma, l’accademia della commozione trasversale si toglie il velo. Per il funerale, a dicembre, si raduna a Ponte Milvio un popolo eterogeneo. A casa arrivano i telegrammi di Berlinguer: “Guarda che strano” dicono i figli: “Papà non è mai stato comunista”. In piazza ci sono giovani e vecchi, amici venuti dal sud e volti pasoliniani. Pino Wilson, informa Chiappaventi, ha una sua spiegazione: “Maestrelli andava oltre la Lazio. Stava più in alto. Ho visto alla camera ardente signore di settant’anni. Non credo siano venute perché amano il calcio”. Poi piange. C’è chi lo fa da quarant’anni e non ha ancora smesso.

Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 11/5/2014