dan.mar., Il Fatto Quotidiano 12/5/2014, 12 maggio 2014
“CIAO CARA, VADO IN UFFICIO A TIRARE BOMBE”
La chiamano «mentalità da playstation». Le esecuzioni a distanza sono quelle commesse con i droni da un soldato sui generis, un anonimo e inappuntabile signore ben vestito, lavato, pettinato, seduto davanti alla consolle di una scrivania in un palazzo senza pretese di mattoni rossi nella base di Holloman nel New Mexico, non lontano da Las Vegas. Un lindo travet della morte che a sera torna a casa dai suoi cari. Il giornalista e scrittore americano William Langewische l’ha descritta in un libro che un paio d’anni fa ha avuto un certo successo anche in Italia: Esecuzioni a distanza edito da Adelphi.
Anche i volenterosi carnefici di Hitler pianificavano tranquilli da dietro scrivanie comode l’assassinio a distanza di milioni di uomini. Erano criminali che demandavano l’uccisione fisica di così tanti innocenti a macellai sul posto, costretti a vedere le vittime in faccia, a leggere la paura sui volti, le espressioni, i gesti, a udire le grida, annusare gli odori. Dall’invenzione della polvere da sparo in poi la distanza in guerra tra vittime e carnefici si è sempre più allungata. Nella guerra del Golfo le «bombe intelligenti» erano tracciati verdastri sul monitor di un caccia. Poi si vedeva la deflagrazione, una specie di batuffolino come di cotone e si intuiva che dove finivano i puntini luminosi probabilmente finivano anche le vite di persone. Ma il pilota che sganciava era in qualche modo coinvolto, doveva se non altro subire lo stress di chi sul posto c’era, anche se a migliaia di metri d’altezza, e rischiava di essere colpito a sua volta, a sua volta abbattuto, ucciso.
Con le esecuzioni a distanza di Langewische siamo in una dimensione ancora diversa: niente sembra più umanamente legare l’esecutore di morte e la vittima se non la pressione del tasto di un computer a migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Di recente il Defence Development, Concept and Doctrine Centre British Ministry in una nota dal titolo «The UK Approach to Unmanned Aircraft System» (l’Approccio inglese ai sistemi aerei senza pilota) è andato al punto della faccenda chiedendosi: «Rimuovendo parte dell’orrore o, almeno, la distanza, non rischiamo di perdere la nostra umanità di controllo e far sì che la guerra sia più probabile?» Nel suo studio sui droni Sacha Bacchi riflette: «Possiamo essere più precisi, compiere atti di violenza chirurgici al sicuro nelle nostre case, ma non è detto che la disumanizzazione della guerra la renda eticamente più accettabile e meno pericolosa».
Studi recenti dimostrerebbero che il senso di umanità si prende però la rivincita e rispunta proprio dove sembra annullato per effetto della tecnologia e della distanza. Il New York Times ha riportato il risultato di diversi studi da cui emerge che gli «operatori» dei droni soffrono di un alto tasso di stress post-traumatico (PTSD). La Air Force americana ha accertato che il 46% dei «piloti» dei droni Reaper e Predator e il 48% degli analisti dei sensori soffre di «high operational stress», dove per clinicamente stressato si intende uno stato di ansietà e depressione con effetti vari sulla vita privata e sulla stessa performance lavorativa. L’indifferenza degli operatori dei droni rispetto al «lavoro» compiuto sarebbe quindi più di facciata che reale. E nella testa e nell’anima dei precisi travet della morte non scivolerebbe come acqua sul marmo l’aver seguito l’«obiettivo» per giorni, anche se solo su un computer, arrivando a riconoscerlo come un uomo con le sue abitudini, i suoi amici, i suoi svaghi, gli affetti, la famiglia.
dan.mar., Il Fatto Quotidiano 11/5/2014