Nanni Delbecchi, Il Fatto Quotidiano 12/5/2014, 12 maggio 2014
C’ERA UNA VODKA: QUEI LIBRI SCRITTI VICINO AL BARMAN
Barman e fantini sono le sole persone frequentabili, osserva Jake Barnes in Fiesta . Il giudizio è un po’ di parte, visto che siamo in un romanzo di Hemingway, ma nei fondi di bottiglia, a volte, c’è un fondo di verità. Io e i miei compagni di università ce ne accorgemmo quando ci capitò di incontrare Ivo, che ci fece capire una volta per sempre la fondamentale differenza tra un barman e un barista. Di baristi è pieno il mondo; i barman sono rari, misteriosi e dotati di poteri occulti. Come il Lloyd di Shining, che servendo a Jack Nicoloson “il solito”, lo trasporta direttamente negli anni Venti.
Ivo non arrivava a tanto. Non indossava la classica giacca avorio con i bottoni d’oro, la sua divisa era una camicia bianca su attillatissimi pantaloni neri; però si vantava di arrivare dalla Versilia, addirittura dalla mitica Capannina di Forte dei Marmi. I suoi aneddoti su celebrità e donne fatali all’inizio sembravano improbabili; ma mentre preparava il Martini cocktail nel mixer, e gettava via il vermouth per trattenere solo il ghiaccio con cui avrebbe aromatizzato il gin, tutto diventava improvvisamente vero. Con quei gesti esatti davanti ai nostri sguardi stupiti, il prezioso vermouth che scivolava via nell’acquaio , Ivo riusciva a trasformare l’angolo bar di una pasticceria di provincia nel luogo più favoloso della città. E quando da un giorno all’altro sparì, fuggito, si mormorava, in compagnia di una fascinosa cliente straniera, il cocchio tornò a diventare zucca.
La poesia felina dell’alcol, la sua lunga alleanza con l’arte e soprattutto con la letteratura non sono separabili da un vero barman, dalla sua capacità di trasformare un bancone qualsiasi in un luogo di conversazione; è la conversazione la prima, vera magia di cui è capace una corretta educazione spirituale da zero a sessanta gradi, come la battezza Sapo Matteucci nel suo fondamentale C’era una vodka; fosse anche la conversazione con se stessi, “quell’assorbimento di sé senza conforto” di cui parla Fitzgerald. Il resto viene di conseguenza, a cominciare dagli american bar tutti legni, ottoni e luci soffuse celebrati dal New Yorker, Esquire, Harper’s Bazar, “il dono supremo dell’America alla cultura mondiale” secondo Bernard De Voto, divenuti nel secolo scorso la residenza dei più grandi scrittori di lingua inglese, e non solo. Hemingway, “il più grande scrittore bevente”, cambiò quattro mogli, e innumerevoli residenze; ma restò sempre fedele ai suoi bar: quelli parigini scoperti in gioventù, con il Ritz personalmente liberato il 24 agosto 1943; quello del Savoy di Londra; l’Harry’s di Venezia, dove sedeva sempre al solito tavolo d’angolo insieme a Giuseppe Cipriani; le due tappe fisse dell’Avana (“Il mio daiquiri al Floridita, il mio mojito alla Bodieguita”); lo Sloppy Joe’s di Key West.
Poiché la competizione è serrata e i tipi irascibili, la rivista online The Kitchen ha provato a stilare un gemellaggio ufficiale tra scrittori e i loro drink preferiti: oltre all’inevitabile Ernest, abbinabile praticamente a tutto, dal Martini al dopobarba, il Mint Julep per Faulkner (William sta al bourbon come Ernest al Gin), il Gin Rickley per Fitzgerald, il Gimlet per Raymond Chandler (fu Philip Marlowe a introdurlo negli Stati Uniti), il Vesper Martini per Ian Feleming, lo Screwdriver per Truman Capote, il Margarita per Jack Kerouac, il Jack Rose per Steinbeck. A proposito dell Martini cocktail, la “pallottola d’argento”, da sempre il drink più letterario in assoluto, si può assegnare una palma ad honorem a Dorothy Parker, in quanto autrice della miglior battuta: “Adoro farmi un Martini, al massimo due, al terzo finisco sotto il tavolo, al quarto sotto il mio ospite”.
Hemingway sosteneva che il Gordon gin fosse il miglior antisettico del mondo e il suo eterno rivale Faulkner replicava che “non c’è nulla che il wiskhey non possa curare”. A parte forse la vita, considerato che morì alcolizzato, come d’altra parte cinque premi Nobel americani su otto del Novecento.
Ma se non si aspira al Nobel, a proposito di alcol e letteratura il miglior consiglio che si può dare è di leggere in relativa sobrietà. Non può essere un caso che le massime cattedrali alcoliche siano altrettante discese agli inferi; oltre al leggendario Sotto il vulcano di Malcom Lowry bisogna ricordare Mosca con vodka di Venedikt Erofeev e Giorni perduti di Charles Jackson (appena tradotto in Italiano per la prima volta nella versione integrale), da cui Billy Wilder trasse il celebre film omonimo. Quattro Oscar e un lieto fine completamente inventato, perché in certi casi se si vuole chiudere bene non c’è alternativa al bluff.
E se si preferisce qualcosa di meno forte, si può sempre andare sugli italiani; scrittori-enologi come Mario Soldati (Vino al vino) o Paolo Monelli (O.P. ossia il vero bevitore) o magari Giancarlo Fusco che invece andava a grappa.
Ogni mese ordinava diverse casse alla Nardini, che le spediva al “Bar Fusco: a ordinarne così tante poteva essere solo un bar.
Nanni Delbecchi, Il Fatto Quotidiano 11/5/2014