Marco Belpoliti, La Stampa 12/5/2014, 12 maggio 2014
IL PANE? NEL SACCHETTO
Da qualche tempo al ristorante il cestino del pane non è più di vimini intrecciato o metallo, bensì di carta, come se il pane l’avesse portato lì per lì il panettiere passandolo direttamente in tavola.
Hanno cominciato i locali d’impronta ecologica, ma l’hanno adottato anche alcune catene di pizzerie. Il messaggio che il sacchetto di carta vuole trasmettere è: genuinità. Un retaggio del passato, quando i mulini erano bianchi, come nella famosa pubblicità. Il pane proposto nel sacchetto di carta diventa così il simbolo stesso del ristorante, la sua metonimia. Naturalmente non è sempre vero, ma come altri mezzi di comunicazione visiva culinaria – ad esempio il tagliere degli affettati in legno –, il ristorante cerca di veicolare l’idea di una cucina «casalinga», che è una delle proposte gastronomiche possibili. Casalingo contrapposto a raffinato, proprio nel momento in cui scompaiono le trattorie tradizionali dove si cucinavano piatti semplici, fatti-in-casa, e gli avventori non si sentivano clienti bensì parte della famiglia del ristoratore. La cucina casalinga, che un tempo allestivano mamme e nonne, è oggi in disuso.
In casa si cucina sempre meno, e probabilmente per questo esplode quella che Gianfranco Marrone chiama la «gastromania», di cui le trasmissione televisive sono la metafora virtuale onnipresente. Il sacchetto del pane corrisponde alla scomparsa della cucina tradizionale praticata da generazioni di donne, perché gli uomini non entravano quasi mai in cucina; i cuochi se li potevano permettere solo re e nobili. Nei sacchetti proposti nei ristoranti il bordo appare ripiegato per dare il senso di qualcosa di ben preparato, mentre il pane vi assume una forma rustica, ed è quasi sempre bianco. Nel passato il pane non era affatto bianco bensì scuro. Come ci ricorda Piero Camporesi in «Il pane selvaggio», il pane del popolo, dei poveri, degli straccioni, dei disoccupati e dei contadini, che erano la maggioranza nelle società preindustriali, era «un pane sempre in fuga, inafferrabile come un incubo al rallentatore, d’interminabile fuga». Il pane bianco contrapposto al pane nero, o piuttosto il senza-pane dei miserrimi. Quel sacchetto sui tavoli dei nostri ristoranti non rimonta perciò al mondo contadino e ai suoi valori; è piuttosto il contenitore del pane della piccola borghesia, l’Italia a cavallo del boom economico. Il passato prossimo è oramai il solo passato che ci resta.
Marco Belpoliti, La Stampa 12/5/2014