Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 11 Domenica calendario

LUISA MURARO

[Intervista] –

Poche donne incarnano e interpretano l’ideale del femminismo come Luisa Muraro. Non ci sono solo rigore e passione, rabbia e realismo nelle sue analisi. Si scorgono profondità e chiarezza. E quello che noto, durante il nostro incontro milanese, è un desiderio paziente di spiegare. Sono davanti alla sua distratta mise nell’intenzione di capire chi è questa donna, a volte brusca, con una lunga storia di militanza alle spalle. Penso alla sua formazione cattolica. Agli anni Sessanta, crogiuolo di fermenti e passioni: «Fummo una generazione fortunata. Se penso a quel periodo mi vedo determinata e rivendicativa all’Università Cattolica, dove ho studiato e insegnato. Guardi questa foto. Insieme a un’amica, avevamo da poco fondato il circolo Bernanos. Vede? Sono lì con i fogli in mano che leggo un testo. Cos’è? Mi pare riguardasse la teologia della liberazione. Era il 1967».
Un anno prima della contestazione.
«Alla Cattolica iniziò in anticipo».
C’era anche Mario Capanna.
«Certo, fu mio studente anche se eravamo quasi coetanei. Lavoravo alla cattedra di filosofia con Gustavo Bontadini».
Il maestro di Emanuele Severino?
«Proprio lui. Ricordo arditi confronti tra loro. Ai seminari io ero un po’ defilata. Non sapevo ancora se la filosofia mi interessava davvero».
Perché scelse la Cattolica?
«A 18 anni lasciai il mio Veneto, sono nata non distante da Vicenza, e cominciai a girare per le università europee. Passai a Parigi, poi a Bruxelles e a Francoforte. Senza mai trovare il clima giusto».
Come si manteneva?
«Lavori vari, facevo soprattutto la baby sitter».
Torna in Italia, va a Milano, si laurea alla cattolica. Su cosa?
«In filosofia della scienza con Evandro Agazzi. A quel punto non sapevo bene che fare. La passione era disegnare fumetti. Fossi stata incoraggiata, avrei certamente intrapreso quella direzione. Ma allora era un genere poco praticato. Fu Bontadini a propormi di fargli da assistente».
Perché?
«Frequentavo i suoi seminari teoretici. Un giorno mi dice: ma tu non intervieni mai? Non mi interessa, risposi. E perché sei qui? E io: se la filosofia non si misura con la metafisica diventa una banalità. La risposta gli parve soddisfacente per una vocazione che in quel momento non sentivo, anche se in alcuni punti trovavo congeniale il pensiero filosofico».
Ma non restò a lungo all’università.
«No, a causa della contestazione persi la borsa di studio. Dovevo mantenermi. Perciò decisi di lasciare la Cattolica e di andare a insegnare in una scuola media».
E come fu il passaggio?
«Coinvolgente. Il lavoro con gli studenti sviluppò in me una prospettiva antiautoritaria. Nell’idea di una nuova pedagogia partecipai alla nascita della rivista L’Erba Voglio, il primo numero uscì nel 1971. Vi collaboravano tra gli altri Lea Melandri e Giuseppe Sartori. Ma il vero ideatore fu Elvio Fachinelli, un uomo di grande intelligenza, psicoanalista per niente ortodosso, in grado come pochi di leggere i movimenti, allora nascenti, senza schemi preconcetti».
Quanto durò il vostro sodalizio?
«Fino a quando non scoprii il femminismo. Lo piantai infliggendogli una sofferenza che nel tempo è diventata la mia».
La sua perché?
«Non è facile da spiegare. Le nostre strade politiche e culturali si erano separate. Poi, era il 1989, ricevetti un suo libro. L’ultimo: La mente estatica. C’era una dedica per me: “Troppo lontano?”. Mi fece incazzare. Lontano da cosa? Certo non dal misticismo che lui affrontava nel libro e che io stessa da tempo studiavo».
Ma non c’era niente di offensivo in quella frase.
«Lo so. Ma il mio femminismo era molto combattivo. Andava dritto contro la società degli uomini. Noi donne stavamo per conto nostro. Quello che non sapevo era che Elvio stava già molto male e quando morì, mi riferirono che fino all’ultimo aveva atteso una mia visita. Che non ci fu. Ho provato dispiacere. Mi sono arrabbiata con me stessa. Gli ho dedicato delle parole, successivamente. Ma resta il fatto che non c’ero quando avrei dovuto esserci».
Lei resta una delle figure di spicco del femminismo, non solo italiano. È giusto aver abbracciato questa causa in maniera così totale da scacrificare il resto degli affetti e delle esperienze?
«Fino a 30 anni mi interessai profondamente all’umanità maschile, perché la cultura era quella degli uomini. Il pensiero politico e le cause in cui mi sono spesa erano concepite da uomini, sicuramente degni, ma uomini. Quando arrivò il movimento delle donne, ho visto il mondo in una prospettiva autenticamente mia».
«Un coinvolgimento profondo. Un grande amore».
«No, non mi definirei lesbica e spero che le mie amiche lesbiche non se la prendano. Nel XX secolo sono state soprattutto le lesbiche a combattere per la libertà femminile. Oggi vi partecipano le casalinghe e perfino le suore. Le donne sono per me il principio della vita. La loro felicità mi tocca due volte di più. La loro stupidità mi offende due volte di più».
E questo è il femminismo?
«L’ho sempre inteso come una lotta per il senso libero della differenza sessuale».
Liberazione da cosa?
«Liberazione è parola ambigua. Hannah Arendt disse egregiamente che non c’è liberazione se non c’è libertà. I movimenti che lottano senza pratiche di libertà finiscono male».
Una lotta è pur sempre per il dominio e il prestigio.
«Ma il prestigio deve nascere dall’autorità non dalla forza».
Come ci si oppone alla forza se non con la forza?
«Direi innanzitutto con la giustizia. Con maggior senso di giustizia».
L’autorità è impalpabile, da dove nasce?
«Di solito la gente confonde autorità e potere, come fossero la stessa cosa. L’autorità è di ordine simbolico non riguarda la forza fisica».
Cos’è il simbolico?
«Per dirla alla buona è ciò che dà senso e giustifica la nostra presenza nel mondo. Faccio un esempio. Si obbedisce alla legge perché è la legge».
Mi pare un formalismo giuridico.
«No. Si obbedisce alla legge non per timore della sanzione, ma perché nella parola stessa c’è l’appello alla forza simbolica, all’autorità immanente a questa parola. È un’interpretazione che parte da Montaigne e attraverso Pascal arriva a noi».
C’è qualcosa di mistico.
«È l’impalpabile al quale si faceva riferimento. L’ordine simbolico si manifesta attraverso parole dette al momento giusto. E sono parole che non dicono all’altro cosa deve fare. Non prescrivono. Ma hanno il potere di dissipare il marasma emotivo e mentale di una persona. Più che un’esperienza individuale di cambiamento è una pratica di condivisione con gli altri».
Perché dovrebbe riguardare più le donne che altri soggetti?
«Perché il paradigma politico della modernità ha escluso in larga parte le donne dal contratto sociale o ha ridotto quest’ultimo a contratto sessuale».
Cosa le evoca il nome di Carla Lonzi?
«È stata uno dei tramiti fondamentali del mio femminismo. Ma non l’ho mai incontrata. Morì troppo presto. Di cancro. Sputiamo su Hegel, il suo pamph-let, uscì mi pare nel 1970 e fu una rivelazione. Ma la persona con cui mi sono più ritrovata è Lia Cigarini. Già nel 1966 aveva dato vita al primo gruppo femminista».
Cos’era il femminismo dell’autocoscienza?
«Una pratica straordinariamente intensa, soprattutto nei primi anni. Poi le storie hanno cominciato a ripetersi. Ma c’era sempre qualche scintilla nei racconti delle donne, che destava la mia attenzione. Ci riunivamo spesso in case private, estromettendo gli eventuali mariti. Io, ad esempio, avevo un fidanzato che non mi mollava più. In tutti i modi tentò, senza riuscirvi, di strapparmi dalla mia decisione. Tra l’altro avevo alle spalle già un divorzio e un figlio».
Era una situazione difficile?
«Non con mio marito che fu comprensivo e capì che non ero fatta per la vita coniugale. Era il 1966. Del figlio che avemmo, che ho molto amato e amo, all’inizio se ne occuparono i nonni».
Allora un divorzio non era una cosa semplice e accettabile. Soprattutto nel Veneto. Come reagì la sua famiglia?
«Non troppo male. Avevo la fiducia dei miei genitori. Anche il divorzio, che poi fu un annullamento, lo accettarono. Compresi che non mi chiedevano molto e che volevano andare verso la loro vecchiaia, passo dopo passo, senza problemi».
Suo padre cosa faceva?
«Era direttore amministrativo di un ospedale locale. Nel paese ci consideravano una buona famiglia, ma di fatto povera, perché 11 figli significavano troppe bocche da sfamare».
Come ricorda la sua infanzia?
«È stata un’infanzia non infelice, ma senza felicità. Tranne che per il rapporto con i miei fratelli e sorelle».
Quando dice senza felicità cosa intende?
«Era come se mi fossi staccata da tutto il contesto familiare e guardassi a quel mondo con freddezza. E quel mondo mi ritornava senza colori. Solo nelle baruffe e nei giochi a non finire, con i miei fratelli e sorelle, ritrovavo leggerezza e coinvolgimento».
Quanto ha pesato la sua educazione cattolica?
«Non rinnego la religione di mia madre. Si tratta di una tradizione spirituale importante. Che in me si è acuita quando ho scoperto la ricchezza della mistica».
Crede in Dio?
«È una domanda che farebbe un confessore».
Perché no?
«Ho due punti di forza. Primo: se Dio c’è, si farà conoscere. I mezzi non gli mancano. Secondo: se immaginassimo Dio come un’entità che sta da qualche parte, lo perderemmo. Se invece lo collochiamo nei momenti di gioia e della generosità o, come il Dio cristiano, nei momenti del perdono e della riconciliazione, la sua presenza sarebbe assai più tangibile».
La solidarietà è importante?
«Certo, ma non la tradurrei in volontariato. Sono egoista».
Egoista?
«Cerchiamo tutti un modo per salvarci. Questo è l’egoismo».
Non contraddice quell’ordine simbolico materno su cui spesso ha richiamato l’attenzione?
«No, la madre è animata da una potenza autoaffermativa che però non va mai a scapito dell’altro, della creatura piccola».
Oltre a egoista come si definirebbe?
«Impulsiva, ma non avventata. Ho sempre fatto bene i miei conti, con molto realismo».
Quel realismo cosa suggerisce?
«Che le donne hanno sempre pagato».
Tutte?
«Ci sarà una quota di stronze, di invidiose, di meschine, di furbe. Ma sono la netta minoranza. Non rappresenta il sistema di vita femminile contraddistinto dalla logica dell’affetto».
Ma non pensa che questo sistema sia stato compromesso da modelli che poco hanno a che vedere con le logiche dell’affetto e dell’autenticità?
«È un punto vero. Oggi mi interrogo sulle responsabilità di questo esito da parte di una generazione che è stata fortunata, perché non ha conosciuto il fascismo e non è stata bastonata dalla crisi».
Che risposta si è data?
«Noi femministe abbiamo fatto un’esperienza di felicità, tenendola troppo stretta nelle nostre mani. Non l’abbiamo passata alle nuove generazioni di donne ».
È una dimostrazione di egoismo?
«Mi chiedo se non siamo rimaste troppo attaccate al nostro benessere. È una questione su cui sto riflettendo. In cosa abbiamo mancato? Le nuove trentenni — che dicono: noi non abbiamo ereditato nulla, siamo precarie — ci gettano in faccia la loro rabbia. Ma poi è anche vero che non sono riuscite a ereditare niente».
C’è una mutazione radicale dei linguaggi e delle aspettative?
«C’è indiscutibilmente. E la cosa, per dirla in maniera sempliciotta, mi fa sentire come una persona che deve uscire di scena. Ma non voglio farlo da scema. Non intendo farlo come una che ha creduto in un sogno irrealizzato e irrealizzabile».
È un’espressione curiosa «uscire di scena» detta da lei. Molto teatrale.
«È la cosa più importante nella vita. Perché si arriva a un certo punto che devi deciderti a quel passo. E devi trovare le parole, se non le ultime almeno le penultime, con cui lucidamente cerchi di capire cosa sta accadendo. Ma non lo so. Questo è il punto. E la postura cattolica non è abbastanza. So solo che c’è un mondo di uomini e donne che si disfa disordinatamente e di aver scritto tanto per cambiarlo in meglio. C’è il desiderio che qualcosa resti. Ma non so quale traccia lasceremo di noi».
Non crede che spetterà agli altri deciderlo?
«Sì, ma a me toccano le ultime battute».

Antonio Gnoli, la Repubblica 11/5/2014