Carlo Bonini, la Repubblica 11/5/2014, 11 maggio 2014
DALLA SCORTA AI FUNZIONARI TUTTI GLI ABUSI DI SCAJOLA
Claudio Scajola, l’uomo che da ministro dell’Interno lasciò morire senza scorta «il rompicoglioni» Marco Biagi, aveva trasformato la sua di scorta, quella di cui gode ininterrottamente da 13 anni, in abuso permanente. L’inchiesta di Reggio Calabria documenta come, per mesi, nel 2014, una macchina blindata e quattro agenti di polizia siano stati piegati a servizio privato e strumento di illegalità.
Perché funzionali alle necessità di rendere sicura la latitanza di Amedeo Matacena, un condannato per mafia. Con denaro pubblico è stato pagato il costo per sbrigare le incombenze della signora Matacena (cui Scajola si era “consegnato”), nei suoi spostamenti da e per Montecarlo, in quel di Nizza e in Italia. Con denaro pubblico, una forza di polizia è stata trasformata nel suo contrario.
IL VIAGGIO IN COSTA AZZURRA
Al Viminale, che ora annuncia laconicamente un’indagine ispettiva della Questura di Imperia (cui i poliziotti di scorta a Scajola erano in carico), nessuno sembra aver visto. A quanto pare, nessuna anomalia è stata mai segnalata dai poliziotti in servizio. E soprattutto nessuna domanda è mai stata posta dal “centro” verso la periferia. Non fosse altro per chiedere conto anche solo di una giornata come quella del 15 gennaio di quest’anno, quando, nel giorno del suo compleanno, la dismisura di Claudio Scajola sembra raggiungere il culmine della sua “spregiudicatezza” (per dirla con le parole dei pubblici ministeri). Quel giorscortano, l’ex ministro, per raggiungere con Chiara Rizzo la Costa Azzurra, organizza uno “ scappotto” in autostrada (così in gergo si definisce il trasbordo da un’auto a un’altra) che coinvolge l’auto blindata della sua e quella privata del suo caposcorta, tale Stefano. Né vuole sentire ragioni quando la sua segretaria, Roberta Sacco, gli spiega che quello spostamento, da fare per altro “senza attrezzi” (le armi di ordinanza in dotazione agli agenti), dovrà in qualche modo essere comunicato, perché venga autorizzato, al Viminale. «E che lo comunichi pure, che me ne frega… tanto, non lo sa mia moglie, basta che lo tengano riservato, facciano quello che devono fare però mi lasciano là allo svincolo! ». Nel comando, nel disporre di ciò che suo non è, ma come tale viene inteso e utilizzato, Scajola è assertivo. Quasi avesse la consapevolezza di essere libero da qualsiasi controllo. Sia da parte degli uomini cui impone il suo abuso e che del suo abuso si rendono oggettivamente complici.Sia da parte di quegli uffici che, al Viminale, dovrebbero vigilare sulla correttezza di un servizio che ha un solo scopo: la tutela dell’incolumità fisica dello scortato.
I CONTROLLI SULLA CAYENNE
Accade quando Scajola ordina che la scorta lo vada a recuperare in quel di Point san Ludovic, lungo la statale Aurelia, non lontano da Mentone e molto vicino a dove la Rizzo ha la sua residenza. E dove evidentemente è stato lasciato solo per sua disposizione. Ma accade anche quando il sovrintendente dell’Ispettorato del Viminale che dovrebbe appunto controllare l’uso proprio delle scorte viene al contrario sollecitato dalla segretaria dell’ex ministro a fare ciò che non dovrebbe: controllare ai terminali del Ministero l’intestazione e i passaggi di proprietà della Porsche Cayenne che normalmente usa la Rizzo.
Al Viminale, della faccenda nulla ha da dire il ministro Alfano. Nulla il capo della Polizia. Nulla l’Ispettorato (competente per le modalità con cui i servizi di scorta vengono svolti). Nulla l’Ucsi, l’ufficio centrale che, dalla morte di Biagi in poi, decide, su proposta delle Prefetture, chi meriti una scorta e chi no. La questione pare debba essere affare del solo questore di Imperia, Pasquale Zazzaro. O, meglio, del suo vicario che — spiega Zazzaro nel pomeriggio — «ha ricevuto un formale incarico ispettivo per verificare se vi sia stato un uso non corretto della scorta». E, a ben vedere, in tanta afasia, c’è un motivo.
SOTTO PROTEZIONE DAL 2001
In questi 13 anni, Scajola, di fatto, non ha mai perso l’ombrello protettivo del Viminale. E dunque, il suo abuso interpella la distrazione di chi lo ha tollerato o non lo ha visto. Per lui, complici i ministri di centro-destra che si sono succeduti nel tempo, norme e prassi hanno conosciuto una regolare eccezione. A cominciare dalla scorta, di cui gode ormai ininterrottamente dal 2001. Da ex ministro dell’Interno ne avrebbe avuto diritto per un anno soltanto dalla cessazione dell’incarico, dunque fino al 2003. Ma così non è stato. Da ministro per l’attuazione del programma (2003-2005) prima e delle attività produttive (2005-2006) poi, da presidente del Copasir (2006-2008) e quindi da ministro dello Sviluppo Economico (2008-2010), il nostro viaggia infatti regolarmente tra il livello II e III di protezione. Mai meno di due macchine al seguito (una delle quali blindata). Mai meno di 5, 6 uomini di scorta. Almeno fino a quando, è il 2013, si ritrova — o almeno dovrebbe ritrovarsi — appiedato. Non fosse altro, perché in quell’anno cessa di avere anche solo un ruolo di parlamentare. E tuttavia, a Scajola la scorta non viene tolta.
La Prefettura di Roma, che in quell’anno è ancora competente per la sicurezza dell’“ex tutto” (quella di Imperia lo diventerà da quest’anno), riceve sistematiche segnalazioni e denunce dall’interessato su una teoria di minacce telefoniche che lo perseguiterebbero e dunque dimostrerebbero la sua vulnerabilità. La ragionevole probabilità, insomma, che consegnarlo a una macchina privata, a un taxi, significherebbe esporlo a «rischio di vita». Naturalmente, non decide la Prefettura. Ma al Viminale di Alfano l’idea che qualcuno possa cancellare con un tratto di penna il servizio di tutela a Scajola non è nelle cose. Pure essendoci per altro motivi per pensarla diversamente.
IL TELEFONINO DEL MINISTERO
Tra il 2012 e il 2013, accade infatti qualcosa che dovrebbe consigliare il Viminale e il vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza a valutare il modo con cui l’ex ministro gode dei servizi del Ministero. Durante le indagini sul Porto di Imperia (aprile 2012) si scopre infatti che Scajola (che in quell’inchiesta viene intercettato) usa un cellulare la cui sim è intestata e pagata dal Ministero. Una “svista” — come accerterà l’indagine interna allora condotta dal capo dell’ufficio ispettivo Gaetano Chiusolo — che va avanti soltanto dal 2002. Dieci anni. In tutto quel tempo, nessuno, al Viminale, ha pensato con garbo di chiedere indietro il telefono e la sua sim. Né l’interessato ha avuto un sussulto di memoria nel restituirlo. «Pensavo fosse in dotazione con la scorta. E ho già provveduto ad attivare un nuovo abbonamento», dice cadendo dalle nuvole quando l’ispezione viene avviata. È possibile che siano maturate allora l’insofferenza del nostro per i telefoni («Cellulari del cazzo... «, si sfoga con la signora Matacena) e la passione per Skype e Viber. Gratuiti e a prova di intercettazioni l’uno e l’altro, tanto da farne grande uso con la signora Rizzo. È un fatto che, oggi, non sia possibile sapere quale seguito abbia avuto quella relazione ispettiva. Chiusolo la consegnò alla segreteria dell’allora capo della Polizia, Antonio Manganelli. Ma che fine abbia fatto, pare un mistero. È stata interessata la Corte dei Conti per danno erariale? Scajola ha saldato 10 anni di bollette? «Non siamo in grado di dire», taglia corto una fonte del Dipartimento.
La sim a scrocco non era stato per altro l’ultimo incidente. Nell’aprile dello scorso anno, “ragioni di sicurezza” avevano consigliato Scajola e il caposcorta a parcheggiare la Bmw blindata che lo portava in giro per Roma, nel mezzo di piazza del Popolo, uno di quei fazzoletti di città interdetti anche alle ambulanze. L’urgenza, in quell’occasione, e come avrebbero documentato delle foto scattate dal settimanale “ Oggi”, era stata un aperitivo ai tavolini del caffè Rosati.
Carlo Bonini, la Repubblica 11/5/2014