Paolo Soldini, l’Unità 12/5/2014, 12 maggio 2014
SE ANCHE BERLINO TEME IL FLOP
Un po’ di invidia può anche venire. Mentre qui da noi la campagna elettorale si incendia e infuria la demagogia, nella politica tedesca a due settimane dall’appuntamento con le urne regna una calma olimpica, quasi cimiteriale. «Elezioni europee? Indifferenza totale», titola un quotidiano conservatore e azzarda l’ipotesi che il 25 maggio l’elettorato stabilirà un ennesimo record di disinteresse. Dal 1979, l’anno delle prime elezioni europee, la partecipazione al voto è andata sempre scemando: dal 62% al 43% del 2009 e i sondaggi dicono che calerà ancora. La prima osservazione che viene in mente di fronte a questa souplesse è che nella Repubblica federale mancano partiti e movimenti che rinneghino l’euro e l’Europa, a differenza di quel che succede non solo in Italia ma anche negli altri grandi paesi vicini alla Germania: la Francia con la sua Marine Le Pen, l’Olanda dello xenofobo Geert Wilders, il Belgio dei secessionisti fiamminghi, la Danimarca e gli scandinavi in genere con i loro populisti antitasse e via elencando.
ALTERNATIVI IN DECLINO
C’è, è vero, Alternative für Deutschland, il partito antieuro che quando nacque, un anno fa, sembrava preparare sfracelli e che alle elezioni federali di settembre sfiorò la soglia fatidica del 5%. Ma nessuno crede più da mesi che gli alternativi riusciranno a rivoluzionare il panorama politico. L’effetto novità è passato, il partito è isolato e nelle mani di un gruppo dirigente che, a cominciare dai massimi leader, l’ex presidente della Confindustria Hans-Olaf Henkel e l’economista Bernd Lucke, ripete stancamente la stessa solfa. Non c’è dubbio che prenderanno dei seggi, visto oltretutto che la Corte costituzionale ha abolito lo sbarramento per le europee, ma niente di che. Oltretutto, con una decisione non poco travagliata, hanno deciso di rifiutare ogni contatto con i promotori del gruppone antieuropeo Le Pen e Wilders, cosicché il loro peso politico nell’europarlamento sarà ancor più ridotto.
Ma la mancanza nella politica tedesca di una forte componente esplicitamente antieuropea è una spiegazione che va a sua volta spiegata. E la spiegazione della spiegazione forse non è semplice come potrebbe apparire a prima vista. Lo schema, implicitamente polemico, secondo il quale i tedeschi sono contenti dell’euro e dell’Europa perché, a differenza dei loro partner, hanno tutto da guadagnare con l’uno e con l’altra ha, certo, un fondamento di verità ma non dà conto di contraddizioni e disagi che covano nel profondo dello spirito pubblico in Germania.
Contraddizioni e disagi di cui si fanno interpreti, assai più che quelli di AfD, forti settori dei partiti conservatori, minoritari nella Cdu della cancelliera Merkel, maggioritari nella Csu bavarese. Sono quelli che da mesi e da anni contestano per così dire da destra, come insufficienti e troppo concilianti verso i «Paesi della Dolce vita», le politiche dell’austerity e della disciplina di bilancio che il passato governo di centrodestra di Berlino ha imposto a Bruxelles e ai partner e che la grosse Koalition nei suoi cinque mesi di vita ha solo in parte cominciato a correggere. Quelli che, d’intesa con la Bundesbank, contestano le scelte di interventi a sostegno dell’euro di «quell’italiano» di Draghi e sospettano che con i socialdemocratici al governo Berlino finirà prima o poi per cedere a qualche ipotesi di condivisione del debito a favore delle «cicale».
La vera posta in gioco delle elezioni europee in Germania sarà il peso politico che avranno queste tendenze e, di conseguenza, la possibilità di governarle quando Berlino si troverà in un contesto europeo ben diverso dal passato, con una futura Commissione europea che sarà comunque più equilibrata a sinistra di quella attuale (che fu nominata quando i rapporti tra i governi europei erano sbilanciati a favore della destra) anche nel caso in cui lo scontro testa a testa tra socialisti e popolari si dovesse risolvere a favore dei secondi e che alla presidenza dell’esecutivo venisse indicato Jean-Claude Juncker e non il socialista Martin Schulz. Ma quando, soprattutto, apparirà anche a Berlino inevitabile correggere gli aspetti più socialmente iniqui e più recessivi delle politiche di bilancio, a cominciare dal Fiscal compact.
Un’idea un po’ approssimativa ma suggestiva degli orientamenti diversi che, sotto la calma apparente del confronto politico attuale, maturano nel panorama dei partiti tedeschi la offre un curioso sondaggio promosso giorni fa dalla Süddeutsche Zeitung sull’atteggiamento dei candidati alle europee in merito a una serie di questioni.
IL TEMA DELL’INTEGRAZIONE
Risulta così che rispetto al rafforzamento dell’integrazione dell’Unione sono contrari al 100% quelli di AfD, largamente favorevoli i socialdemocratici (76%), i liberali (77%), i Verdi (82%) e i Piraten (86%), forti dubbi si riscontrano nei cristiano-sociali (favorevoli solo per il 18%) mentre – ed è il dato più eloquente – sono per il sì soltanto poco più della metà dei candidati cristiano-democratici. E mentre tutti i candidati sono (ovviamente) favorevoli all’aumento dei poteri del Parlamento europeo, non tutti hanno lo stesso atteggiamento sul problema del deficit di democrazia delle istituzioni europee, tema che è molto sentito in Germania, tanto a sinistra che a destra.
Così sono favorevoli ai referendum popolari (finora non ammessi in Germania) i candidati di tutti i partiti, eccetto quelli della Cdu che si esprimono per il sì solo al 32%, con una netta differenziazione dai candidati della sorella bavarese, favorevoli all’81%.