Giorgio Battaglia, Il Tempo 11/5/2014, 11 maggio 2014
QUELL’UTOPIA REGGAE CHE NON CONOSCE CONFINI
La mano ossuta che stringe la mia, con forza. La faccia tirata, la tuta che «fuma» sudore dopo un’oretta di partita, il ghigno incazzato di chi ha appena perso. Il respiro accelerato che compensa il debito di ossigeno, i nostri occhi ad un palmo di distanza.
Questo è l’attimo che non dimenticherò mai: Battersea Park, Londra. Avevo da poco compiuto 18 anni. Avevo conosciuto Marley poco più di un’ora prima. Ci aveva presentati un’altra stretta di mano, molto formale e poco significativa, quella classica tra avversari prima di una qualunque partitella di calcio. Quando il destino combinò quello strambo match tra una banda di giamaicani e un assortimento di ragazzini europei Bob era a Londra per finire la lavorazione di «Exodus», il suo capolavoro musical/spirituale.
Quel pomeriggio di settembre vincemmo sei a uno. Ovvero, quando la presunzione giamaicana fu umiliata dall’ovvio, micidiale contropiede europeo. Ultima azione. Rimessa lunga del portiere, stop a seguire, palla agganciata al piede e via, al massimo. Finta a rientrare, come sempre. Sento il fiato di Marley dietro di me. Con la coda dell’occhio lo vedo che prova a starmi dietro. Non mi prenderà mai. In un attimo sono in area. Il portiere abbocca alla finta. Lezione di calcio. Tre passaggi e gol di piatto all’angolo opposto. Sto volando a mezzo metro di felicità sopra l’erba di Battersea Park. Giamaicani…? A casa!!! Marley? Ma chi sei? A 18 anni tutto è concesso.
Ma appena la gioia fa posare di nuovo le mie Superga blu sul prato di Battersea capisco che la mia vita non sarebbe stata più la stessa. Marley, lo ricordo come fosse ora, non la prese affatto bene, anche se si trattava di una partitella, una cosetta arrangiata all’ultimo momento. Perché si era dannato l’anima in mezzo al campo, aveva lottato dal primo all’ultimo minuto. Con tenacia, grinta, dedizione. Ma non gli avevo fatto toccare palla. Sempre anticipato. E sempre superato nell’uno contro uno. Forse er questo alla fine mi strinse la mano con tanta forza, quasi con rabbia. Quando ci rivedemmo in Giamaica, ai Tuff Gong Studios, il suo quartier generale di Kingston, ancora mi rinfacciava che quel pomeriggio a Londra aveva una squadra troppo scarsa, e mentre lo diceva io pensavo «è incredibile...come diavolo fa quest’uomo a ricordarsi di aver perso una partita di calcio contro di me...?». Era fatto così.
Marley era un professionista esemplare. Su un campo di calcio come sui palchi più importanti del mondo. Il primo ad arrivare alle prove e l’ultimo a staccare il jack della chitarra. Perfezionista, pignolo, aveva creato dal nulla un suono assolutamente nuovo: potenza ritmica devastante cucita addosso a melodie indimenticabili. Un signor nessuno uscito fuori dalle campagne della costa nord di un’isola che a malapena qualcuno conosceva, al massimo per i pirati o il rum. Un signor nessuno che nel giugno del 1980, proprio in Italia visse uno dei suoi momenti più alti. Perché come un pifferaio magico riuscì a portare a Milano e Torino più di 150.000 persone. Un record mai superato di presenze nel nostro Paese. Una magia, se pensiamo che la stragrande maggioranza delle persone che andarono a vederlo a stento sapevano chi fosse, conoscevano poco o nulla della sua musica, e per sentito dire, blateravano di andare a vedere uno che fumava...perché fu l’associazione musica-marijuana a decretare nel 1980 il successo di Bob in Italia, anche se dell’uso liturgico dell’erba da parte dei Rastafari quasi nessuno all’epoca sapeva nulla.
Ma anche quei 150.000 facevano parte della missione, della missione che Marley doveva portare a compimento nella sua vita terrena: spargere il Verbo Rastafari, attraverso una musica basata su concetti divisibili da chiunque condivida fraternità, rispetto reciproco, solidarietà, pace e amore. E come in Italia, la sua magia ha fatto proseliti in tutto il mondo. A milioni. Ma più il pifferaio magico faceva proseliti, più «il mondo di Babilonia», come Marley chiamava l’establishment politico-finanziario, gli faceva la guerra.
Ma allora, davvero con la sua musica questo omino di campagna con le mani ossute è diventato un nemico da combattere a livello planetario? Davvero Marley è stato un «killing target» della CIA per anni? Al Anderson, chitarrista dei Wailers (la band di Bob) me lo ha confermato. E con lui il tastierista Tyrone Downie. 3 dicembre 1976. 56 Hope Road, Kingston, casa Marley: sono da poco passate le nove di sera. Bob è in cucina, sul retro della casa, sta sbucciando un’arancia mentre parla con il suo manager Don Taylor. Accanto a lui la moglie Rita che ha in braccio il piccolo Ziggy, con loro un fotoreporter. Sono da poco passate le nove quando una tempesta di piombo si abbatte su quella cucina. La polizia conterà centinaia di colpi. Don Taylor è a terra colpito da cinque pallottole, Bob è ferito al braccio, Rita alla testa, Ziggy fortunatamente illeso. Tutto intorno a loro i fori delle pallottole che dovevano fare la strage. Hanno scardinato la porta, devastato ogni cosa, ridisegnato il pavimento con le raffiche di mitra. Doveva essere una strage. Era stata pianificata alla perfezione.
Dice al proposito Don Taylor nel suo libro «Marley and me: my life as Bob Marley’s manager» che «senza alcun dubbio quell’azione era stata organizzata dalla Cia». E Bob Marley risponde all’attentato a modo suo, con una canzone splendida, «Ambush in the night»: «tutte le armi puntate contro di me/un’imboscata nella notte/hanno fatto fuoco su di me/li vedo lottare per il potere/con le loro armi, pezzi di ricambio e danaro sviliscono la nostra integrità/ogni volta che possono colpirci lo fanno con la strategia politica/un’imboscata nella notte/hanno fatto fuoco su di me!».
Dopo essere sopravvissuto ad ogni tipo di imboscata, diventato il numero uno della musica mondiale, dopo aver portato a termine la sua missione di predicatore in nome di Jah Rastafari, Marley morirà, dopo una penosa agonia e un buio periodo passato nella clinica degli «Incurabili» del dottor Issels, nella foresta nera, in Germania, ucciso da un cancro che avrebbe potuto curare facilmente anni prima. Ma non volle curarsi. Certo, perché i rasta non credono nella medicina di Babilonia. Eppure come tutti gli esseri umani che sanno di essere condannati, rasta o no, Bob Marley alla fine fece di tutto per sopravvivere, lottando come un leone. Ma anche il leone più forte del branco, l’11 maggio del 1981 morì a Miami, durante un viaggio forzato verso la Giamaica, deciso da qualcun altro. Mentre lui avrebbe voluto essere sepolto a Shashamane, in Etiopia, nella terra promessa dei Rasta. Era fatto così...
Giorgio Battaglia