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 2014  maggio 12 Lunedì calendario

AFFARI

& POLITICA IL DRAGONE? ORMAI È UN ANIMALE AFRICANO –

I giornali di Pechino la chiamano «diplomazia del treno», perché la penetrazione cinese in Africa sta seminando una serie di reti ferroviarie costruite a tempo di record con finanziamenti, tecnologia, ingegneri e mano d’opera inviati dalla Repubblica popolare. E su quei binari corrono centinaia di miliardi di dollari (o meglio di yuan, visto che tra i Paesi africani sta circolando sempre di più la moneta cinese).
I numeri
Qualche cifra: l’interscambio commerciale tra Cina e Africa l’anno scorso ha toccato i 210 miliardi di dollari, superiore a quello di Usa ed Europa; ci sono 2 mila imprese cinesi impiegate in 50 dei 54 Stati del continente e ci sono un paio di milioni di imprenditori, manager, tecnici e lavoratori cinesi che si sono trasferiti in Africa. Questo grande «abbraccio internazionalista» non è senza problemi: gli occidentali rinfacciano a Pechino di concedere prestiti a regimi impresentabili; e molti africani temono un neocolonialismo strisciante, questa volta arrivato dall’Oriente per mettere le mani sulle risorse naturali. Il governatore della Banca di Nigeria l’anno scorso ha scritto al Financial Times : «Gli africani debbono svegliarsi dal sogno romantico sulla presenza cinese: sono venuti per servire i loro interessi, non i nostri; prendono le nostre materie prime e ci vendono prodotti delle loro industrie, proprio come faceva l’impero britannico. L’Africa si è esposta a un nuovo imperialismo».
Pechino ha risposto moltiplicando prestiti e investimenti. L’anno scorso la visita del presidente Xi Jinping con una linea di credito da 20 miliardi di dollari sparsi nel continente. E ora è arrivato il premier Li Keqiang, per un tour in Etiopia, Nigeria, Angola e Kenya terminato ieri. Nella valigia di Li prestiti per altri 10 miliardi e la promessa di condividere tecnologia (compresa quella per l’alta velocità) e di concedere agli africani interessi più alti sugli investimenti cinesi nella loro terra. I 30 miliardi in tre anni sono «senza clausole politiche» all’occidentale, ha detto il sorridente leader cinese, vale a dire senza chiedere in cambio aperture democratiche o minore corruzione (merce poco apprezzata anche a Pechino). Subito dopo lo sbarco ad Addis Abeba è cominciato il lancio dei progetti: Li ha inaugurato l’autostrada tra la capitale dell’Etiopia e Adama, 84 chilometri a sei corsie costati ai cinesi 709 milioni. Poi ha visto i piani per una linea ferroviaria leggera che decongestionerà il traffico di Addis Abeba, ha visitato i cantieri per un parco industriale sempre finanziati da Pechino e ha concluso la tappa con un discorso nel palazzo dell’Unione Africana, anche questo costruito a spese della Cina per il costo di 200 milioni.
In Nigeria, sotto gli occhi di Li, la China railway construction ha firmato un accordo per una ferrovia di 1.385 chilometri del valore di 13 miliardi, con 22 stazioni. Anche in Kenya, ultima tappa del premier, i cinesi si sono offerti di costruire una linea tra Mombasa e il confine con l’Uganda: si tratta della riedizione di un’impresa dell’Impero britannico che passò alla storia con il nome di «Lunatic express» per i suoi costi esorbitanti. A questa «diplomazia ferroviaria» si sono uniti nel corso degli anni altri doni come il Gran teatro di Dakar in Senegal, 1.800 posti per 34 milioni; lo stadio Zimpeto da 42 mila posti e l’aeroporto di Maputo in Mozambico; un grande ospedale in Mali; la diga di Merowe sul tratto sudanese del Nilo.
Raddoppio
La Cina non ha intenzione di fermarsi. Li Keqiang ha annunciato che l’obiettivo è raddoppiare l’interscambio con l’Africa portandolo a 400 miliardi nel 2020. Resta l’accusa di sfruttamento, basata sul fatto che circa il 64% delle importazioni cinesi dall’Africa sono petrolio, carbone, rame e minerale di ferro. In cambio il mercato africano ha ricevuto prodotti finiti made in China, dai macchinari alle automobili, fino ai tessuti e al vestiario.
L’avanzata cinese è stata favorita dal vuoto lasciato dagli europei con il crollo del Muro di Berlino, quando è partita la corsa verso Est. E Pechino, con la sua grande fame di materie prime, ha favorito la crescita dei Paesi africani dimenticati dall’Occidente. Poi, che la Cina agisca nel proprio interesse e che sfrutti la posizione di forza sul mercato, non c’è dubbio. Ci sono stati anche casi gravi di scontro, come in Ghana dove decine di miniere d’oro sono gestite da società cinesi che trattano i lavoratori senza rispetto per le norme; e poi ci sono cercatori d’oro illegali venuti dalla Cina che hanno schiavizzato i minatori e sono stati costretti a fuggire quando la gente del posto si è ribellata. Li Keqiang ha parlato di incidenti isolati, di «problemi di crescita nella grande relazione tra i popoli» e ha detto con la mano sul cuore «agli amici africani che la Cina non ripercorrerà la strada del colonialismo».
Ora c’è un’altra insidia per l’Africa, legata alla globalizzazione, la nuova forma di imperialismo dettata dal mercato: il rallentamento dell’economia cinese. Nel 2013 le esportazioni di materie prime verso la Cina rappresentavano il 22,4% del totale dell’Africa sub-sahariana.
Ora che Pechino sta fronteggiando l’eccesso di produzione nelle sue fabbriche e cerca di aumentare i consumi interni, il contraccolpo rischia di diventare drammatico tra i Paesi africani.