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 2014  maggio 12 Lunedì calendario

SARTORI IL PRESIDENTE MIGLIORE? NIXON GIOVANNI


«Da ragazzo non ci pensi. Poi arrivi ai settanta e ti viene il sospetto, piano piano, che non sei immortale. A me è andata bene. Sto davvero per compiere novant’anni. Ma ora la salute vacilla. E se il corpo non è sano, tutto comincia ad andare male».
La casa romana di Giovanni Sartori e di sua moglie Isabella Gherardi, dietro piazza Farnese, è inondata dal sole e dal continuo, allegrissimo battibecco tra coniugi. Spettacolo per happy few, incorniciato dai libri di lui e dalle belle opere di lei, luminose come il cielo sulle cupole barocche.
Perché dice che tutto comincia ad andare male? Non si direbbe.
«La pressione bassa mi impedisce di lavorare col ritmo di sempre, come ho fatto per una vita. Il che mi innervosisce».
Una vita vissuta con energia, ironia, intelligenza e successo. Dov’è la radice? Nel carattere, nel Dna?
«Qualche anno fa ho scritto un piccolo saggio che ora accompagna il riordino della mia biografia: Caso, fortuna, ostinazione . La chiave è in quel titolo».
Quanto ha contato la fiorentinità, la nascita a Firenze?
«Beh, molto. Roma capitale, fino al 1900, era un gran pascolo per le pecore che si abbeveravano in piazza Navona. Io invece sono nato e cresciuto respirando l’aria di Prezzolini, di Papini».
Banale dirlo, ma è la stessa del suo amico Giovanni Spadolini.
«Siamo venuti su insieme, anche se Spadolini era più giovane di un anno. Essendo precoce, e grafomane, aveva collaborato, proprio da ragazzo, a “Italia e civiltà” di Giovanni Gentile. Toccò a me, a fascismo caduto (allora ero presidente dell’organizzazione degli studenti), difenderlo da chi lo voleva epurare. Dissi: scriveva anzitempo non perché fosse fascista, ma perché era più bravo di noi. Mi dettero ragione, e Spadolini non fu toccato. Ci ritrovammo in una università semivuota, con quasi tutti i professori sotto inchiesta perché sospetti di fascismo. Nel 1950 Giuseppe Maranini, allora preside della facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri”, sentì il bisogno di reclutare giovani professori. In una seduta del Consiglio di facoltà disse: “Ho scoperto un genio, si chiama Giovanni Spadolini”. E il suo amico-rivale Pompeo Biondi, che insegnava Dottrina dello Stato, controbattè: “Anch’io ho scoperto un genio, Giovanni Sartori!”. E così diventammo professori incaricati insieme, nella stessa seduta. A me dettero la cattedra di Storia della filosofia perché avevo la fama di filosofo. Avevo divorato Kant, tutto Croce e parecchio Hegel, nascosto per sei mesi in una stanza durante la clandestinità. Da allora io e Giovanni fummo legati e amici per tutta la vita».
Una caratteristica dell’uomo?
«La capacità, per esempio, negli anni del Senato, di parlare al telefono, scrivere e discutere con altri nello stesso momento. Faceva pensare a una specie di millepiedi».
Nella sua lunga carriera, c’è il vasto capitolo americano. Quanti presidenti degli Stati Uniti ha conosciuto?
«Nixon, Carter, Reagan e Bush padre».
Chi era il più antipatico?
«Carter. Rammento una riunione della Trilaterale a Tokyo. Lui non era ancora presidente. Ma ho il ricordo netto di un uomo sempre pronto a impartire una lezioncina. Il che lo rendeva antipatico a tutti. In albergo, a colazione tutti lo fuggivano. Era anche poco intelligente, come dimostrò il fallimento dell’operazione per la liberazione dei 52 ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran. “Non voglio nemmeno un morto”, disse. Ma come si può immaginare che una operazione del genere possa essere indolore? Suvvia…».
Il più preparato e intelligente?
«Nixon. Soffriva di grandi complessi. E aveva una mania paranoide di persecuzione, che lo portò allo scandalo Watergate. Ma era intelligente, preparato, rapido nelle analisi. E aveva il senso dello Stato. Durante gli scrutini del 1960 Nixon sembrava che stesse vincendo (a detta dei sondaggi). Ma Joseph Kennedy, il padre di John, telefonò al suo amico sindaco di Chicago Richard J. Daley, che gli procurò i voti necessari. Nixon lo seppe. Ma non volle sollevare uno scandalo. Subì in silenzio una sconfitta immeritata».
E di Ronald Reagan, l’attore-presidente?
«Nella sua California era imbattibile, dominava persino i dibattiti (accesi) con gli studenti progressisti della Stanford University. Ma si perdeva, dicevo allora, se appena entrava in Nevada. Mi sembrò, conoscendolo e parlandoci spesso alla Hoover Institution di Stanford, che fosse già un po’ arteriosclerotico. Eppure conquistò la Casa Bianca per due mandati. Reagan fu anche il presidente che vinse a tavolino la guerra fredda credendo alla tesi delle Guerre stellari di Edward Teller, padre della bomba termonucleare. Reagan gli diede retta e fece partire un riarmo. L’Unione Sovietica fece i suoi conti e capì che tecnologicamente non avrebbe retto alla corsa. Ma in verità le Guerre stellari erano un’invenzione di Teller! Me lo ha detto proprio lui. In confidenza, s’intende».
È vero che Nancy Reagan consultava spesso chiromanti?
«Si, ma è falso che le sue sedute chiromantiche influenzassero veramente il marito. Perché Reagan aveva un intuito sicuro».
C’è una leggenda su un suo incontro con Jacqueline Kennedy...
«Nessuna leggenda. Lei era da poco vedova, e ci ritrovammo insieme, passeggiando alla villa reale di Marlia a Lucca, ospiti della contessa Pecci Blunt. Mi avvicinai e giocai la carta dell’ironia: “Mrs Livingstone, I suppose”. Era per sottolineare la sua fama, la sua notorietà. Lei mi guardò interdetta, non capì, e si dileguò rapidamente. Quella reazione mi lasciò di stucco».
Lei è molto amico di Kissinger. Che uomo è, umanamente?
«Umanamente? Per saperlo bisognerebbe distruggere la sua corazza! Ci siamo conosciuti ad Harvard, quando ebbi un primo incarico negli Stati Uniti. Faceva sorridere quel suo fortissimo accento tedesco, che ha conservato per tutta la vita. In ogni intervista televisiva rispondeva a qualsiasi domanda: “This is a big problem”(qui Sartori lo imita alla perfezione, spinto da Isabella, ndr ) con quell’intonazione germanica... Finita la presidenza Nixon, si ritirò nel silenzio. Fui io a riportarlo alla ribalta nel 1977, quando organizzai a Washington, con l’American Enterprise Institute, un grande convegno per discutere dell’eurocomunismo, dopo che i fatti cileni avevano spaventato persino Enrico Berlinguer e il Pci di allora. Accettò il mio invito, parlò davanti ad un’aula gremitissima. Da allora non si fermò più».
Fin qui abbiamo parlato di grandi americani. Torniamo in Italia. Inevitabile ricordare Gianni Agnelli, l’italiano più famoso nel mondo per interi decenni.
«Ci siamo conosciuti da ragazzini a Forte dei Marmi, al villone Agnelli, e ci siamo dati del tu per tutta la vita. Aveva una presenza straordinaria, grande bravura diplomatica, e soprattutto era un vero signore, quel mestiere lo aveva appreso benissimo. Negli Stati Uniti era molto rispettato. Commise un solo grande errore: mandar via Ghidella, rinunciare alla progettazione delle auto, al design, ai modelli innovativi. Vedo che ora la Fiat sta ricominciando bene, per fortuna».
Anche qui: una caratteristica dell’uomo?
«Ti ascoltava con attenzione per non più di tre minuti, poi basta. Potevi parlargli anche dell’imminente fine del mondo, ma lui smetteva di ascoltarti».
Infine, Oriana Fallaci. Altra grande figlia di Firenze.
«Anche in questo caso ci eravamo conosciuti da ragazzi. Era assai bellina, così come fu poi una gran bella donna. Una giornalista straordinaria. Basterebbe la sua intervista al presidente di Cipro, Makarios, per entrare nella storia, non solo del giornalismo. Sulla sua lotta contro il cancro ho ricordato spesso molti particolari dolorosi. Tentai di aiutarla, ma invano. Lei era così. Sono forse l’unica persona con cui Oriana non ha mai litigato. Perché litigava con tutti».
Vede talenti politici, nell’Italia di oggi?
«Purtroppo no. C’è solo stata una politica che ha sempre riprodotto se stessa e che ha lasciato che la mafia la infiltrasse. Conosco bene l’Europa occidentale e posso dire che abbiamo il peggior metodo di reclutamento del personale politico del continente».
Rimpianti? Conti in sospeso? Occasioni perdute?
«Non saprei rispondere. Non me lo sono mai chiesto».