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 2014  maggio 08 Giovedì calendario

L’ENI DOPO SCARONI


Oggi, con l’assemblea che approva il bilancio 2013 ed elegge il nuovo consiglio di amministrazione, si chiude la stagione di Paolo Scaroni al vertice dell’Eni, il più grande gruppo pubblico. Nove anni nel corso dei quali il cane a sei zampe non ha retto come pure avrebbe potuto le nuove sfide del mondo che cambia. II nuovo amministratore delegato, Claudio Descalzi, non può dirsi propriamente nuovo, avendo fatto parte per sette anni del comitato strategico senza che siano mai trapelate sue posizioni distinte da quelle del capo. L’inedito all’Eni è rappresentato dalla presidente, Emma Marcegaglia, attesa a una prova che sarà importante sia per la società sia per il futuro delle donne in posizioni apicali. Ma a ben vedere il vecchio e il nuovo sono categorie buone soprattutto per la propaganda. A contare dovrebbero essere i risultati. Ed è dunque dal bilancio 2013, a piena responsabilità scaroniana, che si definisce il punto di partenza del tandem Marcegaglia-Descalzi. L’utile consolidato sfiora i 5,2 miliardi di euro. Siamo ben al di sotto dei livelli ai quali Scaroni aveva trovato l’Eni e a quelli dove oggi si collocano le compagnie più paragonabili, a cominciare da Total. Ma secondo lo schema d’indagine adottato dalla Commissione Industria del Senato al fine di valutare la gestione uscente, va anche considerata la qualità dell’utile. Ebbene, la qualità di questo del 2013 non può dirsi eccelsa. Esso è infatti puntellato da ingenti proventi di carattere straordinario, derivanti dalla cessione di tre partecipazioni estere: il 28,57% di Eni East Africa, che possiede i nuovi giacimenti di gas del Mozambico (3,36 miliardi di euro), la franche residua della portoghese Galp (98 milioni) e il 29% di Artic Russia (1,68 miliardi, incassati quest’anno ma conteggiati in anticipo nel 2013 attraverso la rivalutazione dell’asset). L’Eni compensa questi proventi non ripetibili con partite straordinarie negative di notevole consistenza. Per esempio le svalutazioni delle centrali termoelettriche e delle raffinerie (rispettivamente per 919 e per 633 milioni) e con l’azzeramento dell’avviamento residuo pagato sulla belga Distrigas (480 milioni). Formalmente ineccepibile, ma nella sostanza le svalutazioni fanno emergere errori gravi come l’acquisto di Distrigas o situazioni negative conclamate che il management Eni non ha saputo finora risolvere, magari cedendo certe attività almeno in parte come hanno fatto, per le raffinerie, Moratti e Garrone. La vendita di beni patrimoniali positivi, invece, costituisce un’operazione discrezionale che il management fa allo scopo di turare le falle della gestione industriale. E continuare a pagare cospicui dividendi, proporzionalmente superiori a quelli di altre oil company.
Per l’azionista stabile, che nell’Eni c’era, c’è e vorrebbe poter restare, un bilancio come quello del 2013 appare assai preoccupante. Tutti i settori di attività sono in perdita, tranne l’upstream, il settore minerario, che tuttavia peggiora i margini, da 7,4 a 5,9 miliardi. Il margine medio per barile è sceso dai 6,12 dollari del 2011 ai 3,27 dell’anno scorso, soprattutto per il costante aumento dei costi di produzione.
Anche la posizione debitoria segnala una sofferenza. Avere 15 miliardi di debiti finanziari, al netto della liquidità, non rappresenta di per sé un problema in un gruppo della stazza dell’Eni. Ma se tale debito persiste dopo aver avuto un beneficio finanziario di analoga entità con la sola cessione di SNAM (e non staremo a fare l’elenco di tutte le cessioni degli ultimi anni), allora vuol dire che il debito si ricrea perché l’Eni non va come dovrebbe e magari sta facendo passi più lunghi della gamba. E quali potrebbero essere questi passi arrischiati? L’Eni investe troppo? Oppure, per caso, dà troppi dividendi? Nella competizione globale, non si investe mai troppo. O meglio, non si investe mai troppo se si investe bene sotto il profilo industriale.
Veniamo ai dividendi. In Commissione, i gestori uscenti di Eni ed Enel hanno evocato l’ingordigia del Tesoro. Che è vera. Ma non esime i capi azienda dalle loro responsabilità. Ebbene, i risultati della gestione industriale, confermati dalla dinamica del debito, rivelano come l’Eni paghi i dividendi vendendo patrimonio. Una scelta dal fiato corto: e domani, e dopodomani che cosa resterà della struttura industriale dell’Eni andando avanti di questo passo? È vero che il patrimonio netto del gruppo è aumentato, ma nettamente meno di quello delle altre major comparabili. Insomma, comunque la si giri, serve una svolta. Il governo ha scelto, come usava il vecchio Pci, il rinnovamento nella continuità. Si capisce che i critici più severi possano manifestare scetticismo. Ma bisogna guardare avanti. E attendere il tandem Marcegaglia-Descalzi alla prova della semestrale, il primo documento di loro responsabilità. Che cosa scriveranno sul ruolo dell’Eni a Kashagan? E dei contratti take or pay con la Russia? Come imposteranno il South Stream che il governo ha benedetto senza che se ne conoscano i conti previsionali?
La Commissione Industria del Senato ha chiesto al ministero dell’Economia di riferire sulle nomine non solo per dare un seguito al lavoro di analisi svolto in vista delle nomine ma per capire come il governo ha esercitato e intende esercitare in futuro il suo ruolo di azionista, dati alla mano, e non aggettivi. Ma prim’ancora, a dirla lunga sul rinnovamento e sulla continuità, saranno la distribuzione delle deleghe in seno al consiglio di amministrazione e la composizione della prima linea manageriale. E queste scelte sono la prima cartina di tornasole per Marcegaglia e Descalzi.