Gianni Mura, la Repubblica 8/5/2014, 8 maggio 2014
RUDI GARCIA
[Intervista] –
Rudi Garcia ci riguarda (anagramma). Ci riguarda perché è il primo francese ad allenare in serie A e per giunta ad allenare una squadra devastata nel rendimento, umiliata e criticata a sangue dai suoi stessi tifosi, quindi candidata a un rapido e inglorioso fallimento. In teoria. In pratica, Garcia ha firmato un capolavoro anche se, naturalmente, ci tiene a dividere i meriti con tutti. Avevo in mente una domanda da fargli per rompere il ghiaccio: quali differenze fra Trigoria e Luchin, il centro d’allenamento del Lilla? Sono zone che conosco abbastanza, per via del ciclismo. Luchin è un impianto all’avanguardia, che si sviluppa intorno a una fattoria lunga e bassa dell’800. È vicinissimo al Carrefour de l’Arbre, dove comincia la zona di pavé più dura nella Parigi-Roubaix. Cancello la domanda man mano che il taxi s’avvicina a Trigoria, in uno scenario da Roma pasoliniana: donne più o meno vestite in mostra a ogni slargo, il ciglio della strada ininterrottamente segnato da sacchetti di spazzatura, bottiglie di plastica, brandelli di copertoni, stracci, rifiuti assortiti, un potente e annoso inno alla sporcizia. La cancello anche perché ne ho una di riserva Garcia, lo sa con quale città europea è gemellata da più tempo Lilla?
«Non lo so».
Torino, dal 1958. E quindi?
«Quindi, a prescindere dal gemellaggio, domenica voglio che sia una festa del pallone, per noi e per la Juve. Lo scudetto l’hanno vinto loro, complimenti e bravi loro. Ma bravi anche noi, siamo arrivati secondi giocando spesso un buon calcio, è un risultato superiore alle aspettative, me lo dicono tutti e quindi lo accettiamo sapendo che tra un anno dovremo essere più forti se vogliamo vincere noi. Chiedo al nostro pubblico di applaudire le due squadre più forti del campionato e, alla fine, chi avrà vinto la partita».
Lei ci ha creduto davvero a un possibile sorpasso o era un modo per tenere la squadra sulla corda?
«Ci ho creduto fino alla partita col Sassuolo, che ha pure giocato una partita bella e coraggiosa. I sorpassi che sembravano incredibili non li ho inventati io, sono nella storia del calcio. Ci resta la soddisfazione di aver tenuto sotto pressione fino a tre giornate dalla fine una Juve che viaggiava a ritmi-record».
Catania, un brutto scivolone.
«Abbiamo sbagliato tutti, io per primo. Vedremo di farne tesoro. La stagione resta molto positiva».
Un altro avrebbe detto entusiasmante, oppure, aggettivo di gran moda, importante. Ma lei, Garcia, dà l’impressione di controllarsi molto, di essere un freddo.
«Dice? Credo di essere equilibrato, urlare per il gusto di urlare non serve a niente. In verità nemmeno io so cosa sono. Un francese con un nome tedesco e un cognome spagnolo. Un latino, con più sangue spagnolo che francese, forse anche sangue moro. Risulto nato a Nemours ma non ricordo nulla di quella cittadina. I ricordi riguardano Corbeil-Essonnes, la banlieue parigina, i primi calci al pallone, i primi amici, la casa al 13 di rue Marcel Crachin».
Lo sa chi era?
«Un dirigente comunista, mi pare. Corbeil è tradizionalmente una città rossa».
E’ stato uno dei fondatori del Pcf, per 40 anni ha diretto l’Humanité. Al Père Lachaise la sua tomba è accanto a quella di Paul Eluard, e da lì si vede anche quella di Edith Piaf.
«A me piace molto Aznavour».
La mia esibizione di cultura franco-cimiteriale non l’ha molto impressionato. Ritento la scalata da un altro versante. Gli dico che ho letto la sua biografia, scritta con Denis Chaumier, e dopo 239 pagine ne sapevo quasi meno di prima.
«Strano, mi sembra di averci messo dentro tante cose».
Ma spesso depistando. So i titoli dei libri che leggeva sua sorella Sandrine, ma niente di quelli che leggeva lei.
«Erano tutti fumetti».
So che suo padre Josè è stato calciatore e poi allenatore, esattamente come lei. Ma non ho trovato due righe su quello che il padre ha consigliato al figlio calciatore o al figlio allenatore. Non le pare strano?
«Si vede che le ho considerate questioni private. Mio padre era un bravo numero 10, un mancino che non sbagliava un tiro. Ha sempre unito lavoro e calcio, da giocatore come da allenatore. Ha lavorato in un’azienda elettrica, in una fabbrica di vetri, in una banca. Avrebbe potuto fare una carriera migliore, da calciatore. Nei fine settimana era sempre fuori casa, ci vedevamo poco e, da ragazzino, mi dicevo che mai avrei fatto l’allenatore. Cullavo l’idea di fare il veterinario».
Perché?
«Perché mi piacciono gli animali, ho sempre avuto cani, gatti, e ricordo con piacere le vacanze dai nonni a Blagny, nelle Ardenne, le camminate nei prati con le vacche, le oche. Ora ho un labrador, si chiama Saxo e sta in casa di mia madre».
Quando ha cancellato l’idea del veterinario?
«Quando il pallone ha preso il sopravvento. Nella testa mi sentivo un 10, il mio idolo era Platini. Ma sul campo avevo mezzi da 8, o da 7. Ero un calciatore di medio livello, sono arrivato alla serie A senza mai trovare la pappa pronta e a 28 anni ho dovuto smettere per problemi alla schiena».
Secondo me nella rinuncia all’idea del veterinario c’è anche una sua ipersensibilità a circostanze ospedaliere. Una debolezza, se vuole. Quando va trovare suo padre operato alla mascella, impressionato dai fili che la tengono insieme corre in bagno a vomitare. Da buon padre, assistendo alla nascita della sua prima figlia, sviene.
«Allora, qualcosa c’è nel libro».
Sì, ma in questo momento il libro da sfogliare è lei. Nel calcio, campo e panchina, lei è raccontato come un uomo forte, anche in situazioni difficili. Uno deciso, tutto d’un pezzo. Ma, fuori calcio, con le sue fragilità. Ho detto bene?
«Sì. Ho cercato di essere onesto, raccontandomi. Mio padre era un uomo all’antica. Ai miei amici, ragazzi come me, dava del voi, non del tu. Incuteva rispetto. Non parlava molto. Come allenatore di squadre giovanili è stato uno dei tanti militi ignoti che tengono in piedi il calcio. Lui allenava da solo. Io con uno staff. Lo stesso lavoro, ma anche un lavoro diverso. Gli ultimi tempi soffriva di cuore. È morto davanti alla tv, poco prima che iniziasse Grenoble-Digione. ’Ma guarda, non fa giocare De Melo’, fece in tempo a dire. Mia madre si girò ed era già morto. Nella bara gli mettemmo un pallone e io pensai che forse non gli avevo detto abbastanza, in vita. Gli telefonavo dagli spogliatoi, prima di ogni partita. Adesso il suo cellulare è passato a mia madre, e io telefono a lei dagli spogliatoi, prima di ogni partita, poco o tanto importante che sia. Non voglio che si senta sola. E non vorrei essere un allenatore che pensa al pallone 24 ore su 24. Ammetto che non sempre ci riesco. Ma so, da quando è morto mio padre nel 2008, che il capotribù dei Garcia sono diventato io».
Se lei dovesse spiegare il suo mestiere a una classe di bambini delle elementari, cosa direbbe?
«Che vivo della mia passione, ed è un privilegio raro. Che la passione nella vita è fondamentale e bisogna seguirla».
Ai giornalisti invece ha detto che un allenatore dev’essere un attore.
«Sì. Ci sono diversi piani di comunicazione, interna ed esterna. C’è il gruppo, la squadra, in cui includo medici, fisioterapisti, massaggiatori. Io amo i miei giocatori e li difendo. Sono il loro capo ma posso essere padre, fratello, avvocato difensore».
Educatore no?
«In che senso?»
Se uno dei suoi giocatori fa una cazzata, una connerie per dirla in francese, lei come si regola?
«Glielo dico, e anche bruscamente, e magari davanti a tutti i compagni, quando fa più male. È già successo. Ma non vado a raccontarlo ai giornali».
Altre abitudini?
«Non entrare in competizione coi giocatori. Capirli. Metterli nella condizione di dare il massimo. Concentrarsi sui giocatori e isolarsi dall’ambiente. Dicono che ho fatto molto in fretta a capire la Roma. Ho deciso fin dall’inizio che non m’interessava il passato, per me conta solo il presente. Ho trovato un ottimo gruppo, siamo partiti bene, con segnali chiari: Francesco che cede il pallone a Osvaldo, Daniele che segna a Livorno e chiude il tormentone del va o resta, Federico che segna nel derby».
Li ha sempre chiamati per nome, i giocatori, o è una novità romana?
«L’ho sempre fatto».
Che cosa l’ha colpita di più, nel nostro calcio?
«L’utilizzo della difesa a 3, poco diffusa in Europa. Io ho sempre difeso a 4, su tutto il resto si può discutere. E una sola volta ho usato la marcatura a uomo, contro l’Ol: Keita su Juninho, l’ha cancellato».
Lo rifarebbe?
«Non so. Si dice anche in italiano mai dire mai?».
Sì. Che altro?
«Buffon e Pirlo. Che fossero due campioni lo sapevo già, ma mi ha colpito la loro classe umana, il loro comportamento da perfetti sportivi. Giocatori così fanno solo bene al calcio».
Cosa fa male al calcio?
«Dare troppi soldi ai calciatori quando sono ancora molto giovani. È una cattiva abitudine assai diffusa».
Amori calcistici?
«Il Nantes di Arribas e Suadeau, la Francia di Hidalgo ma anche quella di Jacquet e, da sempre, la squadra che sto allenando».
Il gol più bello?
«Quello ottenuto con un tocco da tre metri dopo una serie di passaggi rasoterra. Ma è chiaro che se vedo un gol come quello di Miralem al Milan non vado a sgridarlo, e nemmeno se Francesco, Daniele o Kevin segnano con una botta da 25 metri. Un allenatore è felice quando si sublima, no sublima suona enfatico, diciamo esalta il collettivo».
Questo ballottaggio tra sublimare ed esaltare la dice lunga su Garcia, che ci tiene non solo a conoscere bene l’italiano, ma anche alle sfumature. Alla consegna del premio Prisco, a Chieti, stupì i presenti usando la parola parametri. «Ma non era difficile, in francese si dice paramètres». Ogni tanto si fa dire una parola gergale da qualcuno dell’ufficio stampa e poi la approfondisce per conto suo, visto che di notte continua a studiare l’italiano. Suggeritagli la parola paraculo, e approfonditala, protestò il giorno dopo. «E’ una parola che non posso dire nelle interviste». Forse pensava a qualcosa di protettivo, come il parebrise di Conte (Paolo) o i parepluie di Cherbourg e di Brassens. Se c’è un argomento su cui si può stanare Garcia è il vino. Nel libro racconta di come Pallotta li abbia affascinati, lui e il suo braccio destro Fred Bompard, non solo col piano di sviluppo giallorosso ma sganciando due bottiglie di Romanée Conti 1988 a Garcia e due di Dom Perignon a Bompard, «che beve solo Champagne».
Perché, posto che nella vita c’è di peggio?
«Perché Fred ha lavorato per qualche anno a Reims».
Ma scusi, se Fred avesse lavorato a Evian berrebbe solo acqua minerale?
«Non so, comunque da rossista sto migliorando la conoscenza dei vostri vini. Sangiovese e Montepulciano d’Abruzzo li bevevo già a Lilla, da Gilberto, che ha un ristorante nella città vecchia e considero un amico. E da Olga, una sua dipendente, ho preso le prime lezioni di italiano».
Nel libro lei dichiara: non sono mai contento di quello che ho. Non le sembra un’autocondanna all’infelicità?
«Proviamo a dirlo meglio: non sopporto l’idea di non poter migliorare».
Appunti in ordine sparso. È un pastasciuttaro convinto (cacio e pepe, amatriciana). Più pesce che carne. Tiramisù e dolci al cioccolato (da ragazzo aveva anche provato a cucinarli). Gli è molto piaciuta Gerusalemme. A Roma ha già visitato i Musei Vaticani, la Cappella Sistina, la Sala del Pianto e la Garbatella. Sul Gianicolo va di notte, quando c’è meno gente, per godersi il panorama. Si dice stia cercando casa all’Aventino, ma questi sono affari suoi e non ho approfondito.