Carlo Bonini, la Repubblica 8/5/2014, 8 maggio 2014
IL MINISTRO RECIDIVO
Come nell’affaire Shalabayeva, con la certezza dell’indicativo e una certosina attenzione a girare largo dai fatti (per giunta documentati, questa volta, da una diretta tv), il ministro dell’Interno offre al Parlamento un sacrificio umano.
Un sacrificio che lava la cattiva coscienza della Politica e dovrebbe far dimenticare la sostanza dell’umiliazione subita dallo Stato tra le 21 e le 21.45 di sabato scorso ai piedi dell’emiciclo Nord dello stadio Olimpico. Del resto, questa volta, il compito si presenta più agevole. Nel luglio 2013, si trattò di sacrificare una persona per bene, il prefetto e capo di gabinetto Giuseppe Procaccini. Questa volta, va solo consegnato lo scalpo di un’impresentabile e indifendibile “carogna”: l’orco Genny da Forcella.
E tuttavia, oggi come allora, la mossa mostra tutta la sua fragilità e ripropone l’immagine di un ministro preoccupato innanzitutto di difendere se stesso e dissimulare il vuoto di guida politica e di condivisione delle scelte tecniche degli apparati in un ministero, il Viminale, mai così cruciale in tempi recenti come nella fase che sta attraversando il Paese.
Pattinando su una dato puramente lessicale, Alfano esclude che vi sia stata alcuna “trattativa” con la curva napoletana. Legittima a posteriori le scelte dei responsabili dell’ordine pubblico (né potrebbe fare altrimenti, visto che la telefonata del prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, alle 20 di sabato, per annunciare le scelte che di lì a poco si sarebbero consumate non lo avrebbe come di consueto trovato “raggiungibile”), esclude che la relazione degli organi della Federcalcio sul colloquio tra Genny e il capitano del Napoli Marek Hamsik (di cui Repubblica ha dato ieri ampio conto) documenti qualcosa di diverso dalla ricostruzione proposta al Parlamento.
Basterebbe osservare che è così opinabile la circostanza che non vi sia stata una trattativa che la Procura di Roma ha aperto un fascicolo per verificare se e fin dove le “pressioni” esercitate da Genny e la sua curva abbiano finito per condizionare tempi e modi della finale di Coppa Italia. Ma anche a non voler stare al dato “giudiziario”, sono i fatti a dire che, come che si voglia battezzare quanto accaduto, le scelte di Prefetto, Questore, società calcio Napoli, Lega, Coni, Osservatorio sono state obbligate da uno “stato di necessità”. Se infatti fosse vero che si trattava solo di rassicurare la tifoseria napoletana sulle condizioni dei feriti, perché obbligare Hamsik al rito di degradazione della passeggiata sotto la curva? Il capitano del Napoli non poteva forse parlare con un microfono allo stadio intero? Non meritavano forse di essere “rassicurati” anche gli altri 55 mila spettatori? E ancora: per quale motivo, Hamsik e quanti lo hanno accompagnato in quella passeggiata (compresi i funzionari di polizia che, dice Alfano, dovevano «vegliare sulla sua incolumità ») hanno sentito il bisogno, in quei momenti, di portare la mano alla bocca per non rendere intelligibili i labiali in diretta tv? Forse perché - come documentato dalla Fgci -Genny minacciò Hamsik? Di più. Dice Alfano che non ci fu trattativa perché comunque la partita si sarebbe giocata. Genny o non Genny. E allora, ministro, perché nel sanzionare il Napoli con due turni di campionato a porte chiuse, il giudice sportivo Gianpaolo Tosel scrive ora che «i tifosi del Napoli intendevano invadere il campo qualora il capitano della loro squadra non si fosse recato sotto la curva per parlare con i capi degli ultras»? Era o no quella una minaccia? Ed è accaduto o no che, di fronte a quella minaccia, lo Stato sia stato costretto a genuflettersi?
Carlo Bonini, la Repubblica 8/5/2014