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 2014  maggio 08 Giovedì calendario

I MALI DELLA SCUOLA E L’USO SBAGLIATO DEI TEST INVALSI


Sono cominciate in questi giorni le cosiddette «prove Invalsi», ossia una serie di test sui livelli di apprendimento degli studenti dei vari ordini di scuola, elementari, medie, e superiori. E anche quest’anno, come di consueto, i test vengono avversati da alcuni sindacati, nonché da una parte degli insegnanti e degli studenti.
Per quanto mi riguarda, sono stato sempre favorevole alla valutazione dei livelli di apprendimento, nelle scuole come nell’Università. E, fin da quando i test erano solo agli inizi, ho più volte chiesto che il ministero rendesse pubblici i risultati anche a livello di scuola, anziché tenerli semi-segreti.
Ora, però, vedendo come i test funzionano di fatto, vorrei fare un po’ di autocritica. Perché un conto è il sacrosanto principio della valutazione, un conto è il modo in cui è stato calato nella realtà italiana. Un’idea giusta può trasformarsi nel suo contrario se viene applicata male. E questo, mi spiace doverlo scrivere, sembra proprio il caso dei test Invalsi.
Perché i test sono, o meglio sono diventati, uno strumento discutibile?
Le ragioni sono almeno quattro.
Primo: i test distorcono i contenuti dell’insegnamento. Il sapere che i propri studenti saranno valutati con certi strumenti (tipicamente, anche se non solo, quiz a crocette) può portare il docente a orientare l’insegnamento verso il superamento del test, anziché verso una conoscenza ampia e approfondita della materia. Il fenomeno è noto da anni nei Paesi che fanno ampio uso dei test, e ha ricevuto anche un nome: viene chiamato teaching to the test, insegnare in funzione del test.
Secondo: i risultati dei test sono manipolati. Molti insegnanti, infatti, aiutano direttamente i loro allievi o li lasciano copiare. Il fenomeno è ben noto da anni, ed è così diffuso (specie nelle regioni meridionali) da rendere impossibili i confronti fra territori dotati di differenti livelli di spirito civico. In un Paese come l’Italia l’unico modo di rimediare a questo inconveniente sarebbe di far somministrare i test a personale esterno alla scuola, che non abbia interesse ad abbellire i risultati.
Terzo: i risultati dei test non sono resi pubblici a livello di scuola. Questo pone un grave limite al diritto delle famiglie di essere informate sulla qualità relativa delle varie scuole. Perché se è vero che non si può confrontare il punteggio medio in matematica di un liceo classico di Treviso con quello di Palermo (a causa delle manipolazioni), è assai meno irragionevole confrontare fra loro le scuole di una medesima città, dove il livello di manipolazione dei test è molto più uniforme.
Quarto: in alcuni casi i risultati dei test sono usati nella valutazione del profitto individuale, nonostante l’errore di misurazione sia molto grande (un’obiezione, questa, che vale anche per i test d’ingresso all’Università). E’ noto, infatti, che la precisione con cui i test misurano i livelli di apprendimento è molto alta a livello aggregato (per un’intera scuola), mentre è assai bassa a livello del singolo studente.
Si potrebbe obiettare che, nonostante tutti questi difetti, i test almeno una virtù ce l’hanno: quella di fornire alle scuole un elemento di autovalutazione. Può essere vero, a certe condizioni (valutatori esterni e completa pubblicità dei risultati). E tuttavia qui bisogna cercare di non essere ipocriti. Immaginate che, grazie ai test, una certa scuola scopra di essere indietro, e che il suo dirigente voglia alzare i livelli di apprendimento reclutando buoni insegnanti, più preparati, più motivati, più aggiornati, o queste tre cose insieme. Allo stato attuale della normativa e delle risorse economiche, il nostro povero dirigente non potrà fare praticamente nulla, perché il nostro sistema, pur di evitare abusi e discriminazioni, ha preferito auto-ingessarsi in un meccanismo di chiamate sostanzialmente automatico.
Ecco perché la difesa acritica dei test mi lascia perplesso quasi quanto l’opposizione, ideologica e pregiudiziale, della casta che di fatto governa la scuola. I problemi dell’apprendimento si possono certo affrontare anche con la valutazione, i test, l’auto-osservazione delle scuole. Ma lasciatemi dire che, visto dal lato dell’Università, ossia del luogo dove tanti studenti arrivano dopo ben 13 anni di studi, il problema dei livelli di apprendimento è molto più semplice e banale di come la burocrazia ministerial-pedagogica lo rappresenta. La maggior parte degli studenti che arrivano all’Università hanno un livello di preparazione in materie fondamentali, come la matematica e l’italiano, sulla base del quale, in teoria – ossia stando ai programmi ministeriali – non sarebbero dovuti entrare nemmeno in un liceo. E infatti diverse Università sono costrette a fare corsi di «allineamento» in matematica, logica, lingua italiana, al solo scopo di limitare un po’ gli enormi danni cognitivi che la scuola ha inferto ai suoi allievi.
Ora, non mi si venga a raccontare che tutto ciò dipende da una scarsa capacità di auto-valutazione della scuola. Gli insegnanti che concedono la maturità (e, prima della maturità, la licenza media) ad allievi che non hanno nemmeno lontanamente raggiunto gli standard previsti da questi ordini di scuola, ad allievi che non sono in grado di scrivere o comprendere un testo, ad allievi che hanno cancellato quasi del tutto quel poco di matematica che la scuola ha loro comunque insegnato, ad allievi che sono perfettamente ignoranti in storia, geografia e scienze, questo tipo di insegnanti lo stato penoso dei loro allievi lo conoscono benissimo, perché si vede ad occhio nudo, senza bisogno di alcun raffinato strumento di valutazione. Per alzare i livelli di apprendimento basterebbe che gli insegnanti rispettassero i programmi e non abdicassero al loro ruolo.
Perciò la domanda è un’altra, tanto semplice quanto drammatica: come mai, in questi lunghi anni di carnevale, è stato permesso tutto questo?

Luca Ricolfi, La Stampa 8/5/2014