Federico Geremicca, La Stampa 8/5/2014, 8 maggio 2014
LA DOPPIA ROTTURA DEL SINDACATO: COL GOVERNO E COL “SUO” PARTITO
Manette, polemiche, accuse che rimbalzano nell’aula del Senato e soprattutto quel giudizio, inappellabile, scolpito nella pietra: un provvedimento che aumenta e stabilizza la precarietà, che era sbagliato già prima di entrare nell’aula di Palazzo Madama e che i senatori hanno addirittura peggiorato (Susanna Camusso).
Ma il decreto lavoro ha comunque incassato ieri il secondo via libera dal Parlamento (dovrà però tornare al voto della Camera): e la notizia - comunque si giudichi il provvedimento - non pare certo di quelle capaci di abbassare l’alta tensione che corre lungo il filo governo-sindacati. E che sta segnando, più in particolare, i rapporti (ormai anche personali) tra Matteo Renzi e le organizzazioni sindacali. La polemica, montata lentamente, sembra destinata a caratterizzare pesantemente e ancora a lungo il clima intorno all’esecutivo, a meno di improbabili tregue o passi indietro. E bisogna andare a ritroso negli anni - molto a ritroso - per trovare precedenti a questa sfida apertasi nel fronte tradizionalmente definito riformista. Si cita, talvolta a sproposito, il grande scontro che andò in scena - ormai tre lustri fa - tra Sergio Cofferati, al tempo leader della Cgil, e Massimo D’Alema, che sedeva a Palazzo Chigi. Ma contesti e protagonisti erano assai diversi. E diverso, soprattutto, era l’oggetto del conflitto: appunto il tipo di riformismo che una sinistra moderna deve perseguire. Oggi lo scontro sembra (e in parte è) uno scontro di caratteri, ma cela qualcosa di assai importante, anche se apparentemente generico: e cioè, ruolo e funzione delle organizzazioni dei lavoratori in una società moderna. La polemica è aspra. E a rendere l’idea della singolarità del conflitto in atto, basterebbe un elenco di nomi: Marini, Benvenuto, Cofferati, Epifani, D’Antoni... Tutti leader sindacali e tutti diventati parlamentari sotto le insegne di partiti che hanno poi dato vita al Pd, o perfino del Pd stesso: il partito, insomma, di cui è oggi segretario, Matteo Renzi. Per il sindacato - per la Cgil più in particolare - la rottura è, dunque, addirittura doppia: col governo e con il partito, per dir così, di riferimento. Anche in questo senso un inedito. Secondo i più, si è di fronte all’inevitabile conseguenza di una dinamica avviata dalla doppia accelerazione (nell’esecutivo e nel Pd) imposta dal segretario-premier. Se è questa la causa alla radice del conflitto, è chiaro che il conflitto stesso non potrà aver soluzione - e conclusione - se non con la sconfitta del segretario-premier. Ieri, però, Maurizio Landini, leader della Fiom e avversario dichiarato di Susanna Camusso, intervenendo al Congresso della Cgil, ha proposto una lettura diversa e non banale. «Il consenso sociale di cui gode in questo momento il governo Renzi è figlio delle cose che non abbiamo fatto negli anni - ha affermato il capo della Fiom - per contrastare gli altri governi che l’hanno preceduto». Il riferimento, in tutta evidenza, è all’ultimo esecutivo-Berlusconi (2008-2011) e soprattutto al «governo tecnico» di Mario Monti (riforma Fornero e riforma delle pensioni passate senza un’ora di sciopero...). È a partire da lì che nascerebbero le difficoltà della Cgil (e delle altre organizzazioni sindacali); ed è ancora da lì, secondo Landini, che originerebbe il pericolo maggiore che grava oggi sui sindacati: fare la fine della politica, dei partiti politici, prima fiaccati e poi travolti dal discredito e da un’impetuosa richiesta di rinnovamento. In tutto questo c’è molto di vero. E sarebbe sbagliato se il sindacato non cogliesse l’urgenza di lanciare segnali (come in parte accaduto per la politica) capaci di convincere iscritti e opinione pubblica che qualcosa sta cambiando. Il rischio di apparire «superflui», se non dannosi, è concreto ed esiziale. Occorre una svolta, innovazioni nello stile e nella politica, atti che comunichino che anche la Cgil, la Cisl e la Uil hanno inteso che la stagione, per il Paese, è drammaticamente straordinaria: e che il messaggio è stato recepito. Farlo non è solo necessario: è diventato, ormai, urgente. Dal canto suo, il governo farebbe meglio a non render impossibile - ed a trasmettere l’idea che sia inutile - il confronto col sindacato. Lo stile del Presidente del Consiglio, è quello che è: ma occorre farci faticosamente i conti. Non serve granché denunciare «torsioni democratiche» che, al punto in cui siamo, a molti appaiono semplicemente capacità di decisione. Né ha un senso denunciare la fine della concertazione. Quest’ultima fu un metodo, una via, con la quale - ai tempi di Ciampi - governo e sindacati affrontarono questioni come la politica dei redditi e le allora leggi finanziarie. È una stagione finita, e non da ora: addossarne la responsabilità all’esecutivo di Matteo Renzi, non solo è sbagliato, ma rischia di apparire un alibi per non affrontare le questioni vere che sono di fronte al sindacato ed al Paese.
Federico Geremicca, La Stampa 8/5/2014