Andrea Porro e Olga Noel Winderling, Gq maggio 2014, 8 maggio 2014
«MI AMATE ANCORA?». INTERVISTA A SHARON STONE
La troupe è in piedi dall’alba per preparare il set. Sharon Stone arriva puntuale, alle 10.01: avanza nello studio con falcata da compasso, in tuta nera e sneakers. Ha i capelli raccolti e neanche un filo di trucco. «Good morning», dice, e la sua voce ha sui presenti l’effetto d’un calmante. Il sorriso è di quelli irreali, che sogni - senza mai incontrarli - nel chiuso della tua stanza da ragazzino. Lei è Olivia, Lori, Ginger, Catherine... Cinquanta donne diverse in una, per altrettanti film che hanno fatto sognare tre generazioni di maschi, segnati dal peccato originale di Basic Instinct.
«Sono passati 22 anni da allora», commenta. «Mi fa piacere che regga alla prova del tempo, e non certo per la scena in cui accavallo le gambe: non si parla di un film porno dopo 22 anni. Vuol dire che ho lavorato abbastanza bene da lasciare un segno».
Basic Instinct l’ha trasformata in una star: ha rischiato di cristallizzarsi nel ruolo della diabolica Catherine?
«No. Credo di essermela cavata alla grande in molti altri film, come Casinò, La dea del successo, Broken Flowers e in certe parti di Alpha Dog. Però Basic Instinct è stato uno di quei film capaci di influenzare e rappresentare la propria epoca, ed è proprio grazie a storie del genere che si diventa una star: per Rita Hayworth si trattò di Gilda, per Brad Pitt di Thelma & Louise. Voglio dire: Brad ha recitato da dio in una marea di altri film, ma continuiamo a ricordarlo in quella scena sotto la pioggia».
In Lovelace, questo mese nei cinema italiani, è davvero irriconoscibile...
«Grazie. Interpreto la madre di Linda Lovelace, la pornodiva degli Anni 60 protagonista di Gola profonda che infine si batté contro la pornografia. È un ruolo, appunto, proprio come è accaduto in Basic Instinct. Non mi sveglio certo così alla mattina...».
Si è divertita in quella parte?
«Molto. Adoro mettermi nei panni di persone diverse, travestirmi. Mi piace anche fare la modella, qui, adesso».
Le manca il lavoro di modella?
«Faccio ancora la modella! È divertente, entusiasmante, meraviglioso! Mi guardi, ho compiuto 56 anni e poso ancora per GQ. Non è fantastico?».
Be’, lei è bellissima...
«La cosa continua a stupire anche me».
Quanto è cambiata la sua vita sessuale, con il passare degli anni?
«È migliorata moltissimo! Il fatto è che sono molto più presente. E anche più selettiva: non faccio sesso in continuazione e con chiunque, non più. A volte mi capita addirittura di non fare sesso per molto tempo, perché se non mi importa nulla di un uomo non ci vado a letto, non mi interessa, non vado in cerca di esperienze vuote».
Eppure, nonostante tutto, Sharon Stone resta un sex symbol.
«Fantastico anche questo, no?».
Il suo desiderio più forte?
«Vorrei un compagno. Sono prontissima a incontrare l’uomo giusto, a cui abbandonarmi e che si abbandoni a me, ma che in cambio non mi chieda di rinunciare a essere Sharon Stone: l’ultima volta che mi sono sposata ho cercato di farlo per accontentare mio marito, e per poco non ne morivo. Ora voglio un uomo che mi apprezzi davvero, non uno che mi consideri un trofeo, mi catturi e poi pretenda che io rinunci a me stessa per farlo sentire più importante. Di offerte del genere ne ho avute a bizzeffe, ma si tratta di scelte di vita distruttive».
L’amore che riempie la sua vita?
«Quello per i miei figli, che oggi hanno 7, 8 e 13 anni. Per loro sono anche riuscita a trovare un modo per andare d’accordo con il mio ex marito, e questa cosa mi rasserena. In generale, sono riuscita a rappacificarmi con il mio passato e con le persone che ne hanno fatto parte. Mi sento bene, provo una grande pace. Non ho più parti insensibili dentro di me, e le persone che mi hanno fatto del male dovranno vedersela con loro stesse: non sono Dio, non è compito mio provare sentimenti nei loro confronti, e neppure perdonarle. Devo solo lasciarle perdere, in modo che se la vedano da sole con le proprie azioni».
Lei è buddista da molti anni...
«Un tempo avevo un insegnante di recitazione strepitoso, a Londra, che in realtà per me è stato un maestro di vita. Quando è morto ho sofferto moltissimo. Nel ’93 stavo girando Trappola d’amore con Richard Gere, un film su una coppia sul punto di divorziare, e durante una pausa ci siamo messi a litigare su una scena. Alla fine lui mi fa: "Ti voglio presentare una persona". Così l’ho seguito a un evento senza sapere che voleva portarmi dal Dalai Lama, non avevo neanche idea di chi fosse. Be’, ci siamo piaciuti subito. Lui mi ha chiesto di tornare, poi è diventato mio maestro e ha cominciato a invitarmi alle manifestazioni. È da allora che lavoro con lui. Un arricchimento continuo e incredibile. Il Dalai Lama mi ha regalato la felicità. Nel suo libro La felicità al di là della religione aiuta a individuare la felicità autentica: se la contentezza si esaurisce con l’evento che l’ha determinata, si tratta di piacere; la felicità, invece, dura».
E dunque: oggi cosa la rende felice?
«I miei figli. Sono una madre relativamente anziana: sarà più il tempo in cui mancherò nelle loro vite di quello in cui sarò presente. È questa consapevolezza che mi spinge a insegnare loro tutto quello che so dell’esistenza. E nel farlo provo una soddisfazione e una felicità totali».
Lei sarà la protagonista del prossimo film di Pupi Avati, Un ragazzo d’oro, con Riccardo Scamarcio. Come si è trovata a lavorare in Italia?
«Mamma mia, non c’è organizzazione, per niente. È un caos totale. Quando bisogna girare una scena in auto mettono la telecamera sul cofano, l’obiettivo contro il parabrezza e si aspettano che tu guidi nel bel mezzo del traffico, senza nemmeno un veicolo che garantisca la tua incolumità. E, a proposito, tenetevi forte: la telecamera si alimenta con la batteria dell’auto...».
L’esperienza di un set italiano l’ha veramente scioccata così tanto?
«Giuro. Il giorno di quella scena, all’improvviso la macchina non partiva: i tecnici si sono messi a spingere e io a guidare con la frizione schiacciata. Mi hanno costretta a superare un semaforo rosso, con le altre auto che venivano verso di me, e a girare alla cieca con la telecamera piazzata sul cofano. Mai vista una follia del genere in vita mia. Sul set lasciano perfino entrare i giornalisti. A un certo punto stavo cercando di interpretare una scena piuttosto intensa con l’altro protagonista del film e pochi metri più in là c’era la telecamera del telegiornale. Ma come si fa a lavorare così? Alla fine ho detto che dovevano mandare via tutti. Ma vi rendete conto? Ti ritrovi alla mercé dei giornalisti, dei fan, è una follia».
Questo è lo stile italiano. Diciamo.
«È assurdo. Mi sentivo come se mi stessero vendendo, quasi un lavoro da schiavi».
Una cosa bella sul nostro cinema?
«I vostri film migliori risalgono al neorealismo, con Antonioni, Visconti eccetera. All’epoca, la qualità era eccezionale».
Con la moda forse andiamo meglio.
«Oh sì. Ma più ancora della moda mi piacciono i mobili italiani, con cui infatti ho arredato il mio salotto. E ovviamente l’arte e l’architettura. Tra gli artisti contemporanei mi piace molto Mimmo Paladino: ho un suo quadro bellissimo. Volevo acquistarlo all’asta già anni fa, ma ai tempi non potevo permettermelo. Cinque anni dopo sono riuscita ad averlo. Ero entusiasta».
Cosa le piace di più dell’Italia?
«La costiera amalfitana. Il posto ideale, per me che amo andare in barca, in canoa, in gommone, in paddle boarding...».
Città preferita?
«Firenze. Ma con i miei figli adoro andare a Venezia, soggiornando nella zona del ghetto che è poco frequentata dai turisti. Gli hotel, tra l’altro, lì sono bellissimi, con il giardino. L’ultima volta abbiamo camminato molto. È stato fantastico. Pur troppo, quando siamo tornati a casa il più piccolo si è rotto un polso: ero terrorizzata. All’ospedale gli hanno dovuto fare un’iniezione di antidolorifico, la frattura era piuttosto grave. Appena la medicina ha fatto effetto, lui si è alzato a sedere sul letto. Nella stanza, oltre ai dottori e alle infermiere, c’erano anche i miei amici che erano presenti al momento dell’incidente. Bene, mio figlio si è seduto e ha cominciato a raccontare: "Io sono andato a Venezia, lo sapete? C’è l’acqua dappertutto, non ci sono strade e si va sempre in barca. È stato bellissimo. E abbiamo visto l’arte. Lo sapete...?". Io ridevo e piangevo contemporaneamente: nel suo inconscio era rimasta la bellezza di Venezia. E la bellezza è stata più forte del dolore».
Lei presiede la Fondazione americana per la ricerca sull’Aids (amfAR). Che impegno le richiede questo ruolo?
«Ho assunto l’incarico quasi 19 anni fa e da allora è tutta la mia vita. L’Aids è un problema enorme: a oggi i morti sono 40 milioni, 35 milioni i malati in cura. Ogni giorno 7.000 persone contraggono la malattia, 3 milioni circa ne muoiono ogni anno, ogni 2 minuti perde la vita un bambino. È una tragedia inaudita».
Cos’è cambiato, in tutti questi anni?
«Siamo riusciti a far cambiare delle leggi. Collaboriamo con l’Organizzazione mondiale della sanità e con istituzioni sanitarie anche in Paesi che un tempo si rifiutavano persino di ammettere che l’Aids esistesse. Nel corso degli anni ho incontrato presidenti, primi ministri, leader religiosi. Ho collaborato con grandi scienziati, in laboratori affollati, indossando tute protettive. Sono stata in orfanotrofi, ospizi, ospedali, comunità di senzatetto, in posti dove la gente non ha neppure medicine per curarsi. Insomma, è stato un viaggio estremamente lungo e impegnativo. Abbiamo allargato i nostri campi d’intervento, occupandoci anche dell’acqua necessaria ad assumere i farmaci, del problema dello scambio degli aghi, di leggi sulla sanità, di test sugli animali... È la mia vita, sono un’attivista dei diritti umani».
Il suo impegno umanitario è diventato più importante del cinema?
«Certo che è più importante. Permettere a molte persone di vivere è più importante di fare film. Tuttavia, se non facessi l’attrice, se non fossi famosa, se non avessi l’appoggio dei fan e l’attenzione dei mass media, non potrei neppure dedicarmi a queste attività. I film sono fondamentali per suscitare attenzione. La stampa, in particolare, è cruciale. Ecco perché sono molto felice di aver mantenuto la mia celebrità nel tempo».
Con il senno del poi, ci sono film che si è pentita di aver fatto?
«Eccome. Mi è capitato di lavorare con persone che mi hanno mancato di rispetto. In quelle occasioni, ricordo di aver pensato che non meritavano la mia collaborazione. Ci sono stati anche episodi in cui alcuni produttori mi hanno pregato di fare dei film, anche se sapevo sin dall’inizio che sarebbero stati pessimi. Sono stata praticamente costretta ad accettare per questioni, come dire, strategiche. Per giunta, non mi hanno trattata bene durante le riprese e non mi hanno sostenuta neppure dopo, né mostrato alcuna gratitudine, anche se erano stati loro a chiedermi di fare quei film orrendi. Vergognoso. E ora quelle stesse case di produzione non vogliono farmi lavorare».
Quale, in particolare?
«Oh, ce ne sono diverse. Non voglio fare nomi, perché in fondo sono stata io ad accettare le parti, ma a un certo punto capisci che devi imparare a dire no alle persone potenti. E questa cosa mi sta aiutando adesso nelle mie attività sociali e politiche. Ora sono capace di dire di no ai presidenti, figurarsi ai produttori. Alla fine ti accorgi che sono esseri umani come gli altri. Ecco, sono grata a tutti coloro a cui non sono stata capace di dire di no quando avrei dovuto, perché adesso riesco a farlo con persone molto più importanti di loro».
Cos’ha provato l’ottobre scorso, quando il Dalai Lama le ha consegnato il Peace Summit Award per il suo impegno a favore dei malati di Aids?
«Veramente me l’hanno consegnato alcune persone straordinarie, tutte insieme: Sua Santità; Shirin Ebadi, il premio Nobel per la Pace che si è opposta al regime iraniano; Frederik de Klerk, che si è trovato insieme a Mandela nel cuore di tenebra; Betty Williams, una semplice casalinga che con l’amica Mairead Corrigan ha fermato la guerra civile più violenta di tutti i tempi organizzando la marcia delle madri in Irlanda, il mio Paese d’origine. Questa gente ha creduto in me. Sono scoppiata in lacrime. È stata l’emozione più forte della mia vita».
Ha mai incontrato il Papa?
«No, ma mi piacerebbe molto. Lo ammiro immensamente. Non gli ruberei più di venti minuti, perché ha sicuramente una marea di cose da fare. Vorrei solo parlare con lui di un paio di cose che riguardano le mie attività. Papa Francesco è davvero molto in gamba. E devo dire che è anche molto chic nel vestire».
Papa Francesco? Chic?
«Assolutamente. I suoi abiti sono minimalisti, di un’eleganza curata, ma semplice. Questo sì che è un esempio di moda italiana. È lui la mia icona fashion».