Tim Small, Gq maggio 2014, 8 maggio 2014
USA L’EURO, PARLA ITALIANO: SIAMO ANDATI A CAPIRE CHE DIFFERENZA C’È TRA UN ABITANTE DI SAN MARINO E UN ROMAGNOLO
«Tu sei italiano?», mi chiede Simone, che ha un nome italiano, parla perfettamente in italiano e ha tutta l’aria di essere italiano, ma non è italiano. Siamo a Rimini, è lunedì, non c’è nessuno in giro, il sole è limpidissimo, stiamo camminando sul largo viale davanti alla stazione. Simone e Nicola sono venuti a prendermi per "farmi fare un giro". Simone mi parla del concetto di italianità come se fosse una cosa lontana. «In Italia non funziona niente. Sei mai stato al pronto soccorso?», mi chiede, e io annuisco, gli do ragione. Simone, dicevamo, non è italiano. O meglio, è anche italiano, come seconda nazionalità. Prima di tutto è di San Marino. In termini legali, fiscali e culturali - evidentemente, considerando quanto ci ha messo a parlare dell’Italia come di un Paese diverso, lontano, cioè due minuti netti - è straniero. Che è ridicolo, a pensarci, ma è la verità. Simone è sammarinese, che è una cosa vera, che esiste, mi mostra pure una carta d’identità e una patente.
Non so cosa mi aspettassi, è ovvio che San Marino è una Repubblica indipendente, ha una Nazionale di calcio che tende a prendere tra i 6 e i 15 gol a ogni turno di qualificazione per ogni Europeo o Mondiale, una Nazionale che ho visto giocare, e poi, è ovvio, cosa dovevo aspettarmi? Lo so che San Marino è un Paese. Ma, allo stesso tempo, c’era una parte di me che non ci credeva davvero, che pensava fosse una cosa, come dire, finta? Come se Simone fosse un elfo, o uno hobbit.
Gli domando subito quanti sono ad avere la doppia nazionalità. «Non lo so», mi dice. «Ma direi un bei po’. E molto più comune che un italiano cerchi di ottenere la nazionalità sammarinese che il contrario». Quando gli chiedo il perché, ritorna alla domanda iniziale. «Sei mai stato al pronto soccorso in Italia?». Faccio di sì con il capo, ma mi viene da ridere. «Da noi vai al pronto soccorso, e sei solo». Gli parlo di una microfrattura al tallone che non ho mai curato, e Simone mi dice: «Ci credo, è perché sei italiano». Come se lui non lo fosse, penso io, ma poi penso anche che in realtà non lo è, ma che devo farci, mi viene automatico. Devo ricordarmelo, devo pensarci attivamente: non mi viene naturale pensare a lui come a uno straniero. Mi sembra assurdo. Quel paese medievale arroccato sopra Rimini è l’estero.
Son venuto fin qui, tanto vale chiedere a Simone se mi da un passaggio fino alla sua terra d’origine. Lui acconsente. Ma prima mi lascia in compagnia di Nicola, il che mi da la possibilità di indagare dall’altra parte del confine: che ne pensano gli italiani del luogo, di San Marino?
«Mah? Dici San Marino e dici Fiera del Medioevo. Fanno tutto come gli svizzeri. Sono ricchi. Hanno le banche. Dici paradiso fiscale. Dici balestre e armi tarocche, ma con un aplomb svizzero. E tutto molto sottolineato, a San Marino». Parole di Nicola, capelli corti, barba, occhiali, che a San Marino ci vive di fianco, mentre camminiamo sul lungomare. «Ah, e non sanno guidare. Seriamente. Guidano malissimo».
Per l’ennesima volta, in questo strano lunedì in viaggio verso l’estero, mi scappa da ridere. Mezz’ora dopo ringrazio Nicola, lo saluto e salgo in macchina con Simone, che mi chiede subito se Nicola mi ha detto che i sammarinesi guidano male. «Impariamo a guidare su una superstrada! E qui vanno tutti a scheggia, si facevano anche i gai-ini, quando non c’erano gli autovelox». San Marino, alla fine, consiste in questo: cinque chilometri di superstrada che tagliano la A14 tra Rimini e Riccione verso l’entroterra, verso gli Appennini. Cinque chilometri che finiscono a San Marino città, un borgo medievale arroccato sul Monte Titano, assai pittoresco, molto pulito, pieno di negozi di armi antiche e di profumi, interamente riservato al traffico pedonale. Attorno a questi cinque chilometri di superstrada, appoggiati sulla salita, trovi una manciata di piccolissimi agglomerati urbani, grandi magazzini, concessionarie auto e banche, tante banche. Trentaduemila persone. Poco più di 60 chilometri quadrati. E poi finisce, e si torna in Italia. Entrando a San Marino, quando si arriva da Rimini, dove ci dovrebbe essere, in teoria, la dogana (di cui mi hanno parlato, ma che in 24 ore e in due viaggi non ho mai visto), c’è un ponte bianco con scritto in azzurro "Benvenuti nell’antica terra della libertà", perché i sammarinesi ci tengono molto a rimarcare il fatto di essere una Repubblica dal 1291. Alcuni si spingono più in là e parlano dell’anno 301 come anno di fondazione: la comunità sarebbe stata fondata da Santo Marino, patrono dei tagliapietre, che alla sua morte, nel 366, avrebbe convocato i residenti della comunità libera sul Monte Titano - che aveva fondato sfuggendo le persecuzioni contro i cristiani dell’imperatore Diocleziano - dicendo loro le ultime parole famose: «Vi lascio liberi da entrambi gli uomini». Parlava, per la cronaca, del Papa e dell’imperatore. Da allora, pare, i sammarinesi hanno basato la loro Repubblica sul principio della libertà e dell’indipendenza. Nonché sull’impegno di non pagare le tasse agli italiani.
«Non dipendere da nessuno» è il loro motto. Queste parole sono risultate assai utili già nel 1296, quasi mille anni dopo la morte di Santo Marino, in occasione della mancata riscossione dei tributi al convento di Valle Sant’Anastasio. Un documento processuale infine recitava: «Non pagano perché non hanno mai pagato. Il loro Santo li ha lasciati liberi». Il che, con gli anni, si è tramutato nel molto più terreno concetto di paradiso fiscale. Ma nemmeno questo ha salvato i sammarinesi dalla crisi globale del 2008-2009.
Basta chiedere a Simone, che vorrebbe fare l’insegnante, ma oggi cerca lavoro a San Marino. «Certo, ho più mercati a cui attingere, ma in questa fase è crollato tutto. La crisi, a San Marino, c’è stata. Anche qui si usano termini che vanno di moda nel resto d’Europa, come spending review. E quindi, alla fine non c’è lavoro in Italia, ma nemmeno qui. La fase del paradiso fiscale è finita. Nel boom ci eravamo arricchiti molto perché con le nostre banche - tantissime, anche d’investimento si sono gonfiati i conti con i depositi, spesso, di italiani».
Ma in pratica: il sammarinese, per definizione, è ancora un ricco... «Si, diciamo: macchinona, fa lo stesso lavoro dell’italiano ma guadagna il doppio, paga pochissime tasse. E quindi, più il romagnolo sta male, più demonizza il suo equivalente sammarinese. Ma conta che dal 1992 in poi hanno tagliato tutte quelle leggi che permettevano a San Marino di essere un paradiso fiscale. Non siamo più come gli svizzeri, ma ci vedono ancora così. Succede che ai sammarinesi, a Rimini, righino la macchina».
Chiedo a Simone se anche a lui capitino episodi del genere. «Certo», dice. «Non è razzismo, ovvio. Però se parli di austerità o di crisi e poi scoprono che sei di San Marino, be’, diciamo che è facile screditarti. A quel punto è come se la nostra parola non valesse niente».
Ma è una crisi relativa, no? «Stiamo parlando di un paese, in realtà le dimensioni sono ridotte, è tutto più piccolo. Nel settore privato c’è stato un crollo incredibile da quando San Marino non è più un paradiso fiscale. Conta che io nel 2005 potevo veramente surfare tra lavori diversi. Adesso non ne trovo uno. Proprio perché, essendo un paese, si chiude su se stesso. E poi le esportazioni e i servizi di San Marino sono praticamente tutti verso l’Italia. Anche il turismo, che è un mercato enorme, è quasi tutto italiano. E quindi se l’Italia va male, anche noi soffriamo».
Saluto Simone alle mura di San Marino città, perché lui deve tornare in Italia: ha la fidanzata a Rimini.
Più che sofferenza, o crisi, a San Marino ho visto il deserto. Facendo le debite proporzioni: si trattava comunque di un giorno feriale, quindi non potevo aspettarmi un brulicare di turisti. Ma quando dico deserto, intendo dire ristoranti chiusi, bar chiusi, negozi chiusi, persiane chiuse. Silenzio. Neanche un’anima viva. Nemmeno un gatto ad attraversarmi la strada.
Cammino per il centro del paese, quel bei centro medievale di pietra tutto torri e scalini, e non sento rumori che non siano quelli dei miei passi e dei miei respiri sempre più affannati. Come è lecito, mi perdo. Vago su e giù lungo le scalinate e vedo solo insegne di orologerie e banche, ovunque, tutte deserte. Le luci spente.
Finalmente incrocio due signori di mezza età ben vestiti, che parlano tra di loro, vicini, indaffarati. Li interrompo, chiedo scusa, ma vorrei trovare un ristorante. Si guardano sorpresi - come a dire: «Qui?» - ma mi indicano la via. In pratica devo soltanto scendere, finché qualcosa troverò. Li ringrazio e, mentre mi allontano, sento che uno dice all’altro: «Allora buonasera, signor segretario».
Io scendo, scendo sempre, cercando un ristorante che - ormai l’ho capito - non riuscirò a trovare, già sapendo che la mia serata finirà cosi, perso in un borgo medievale tanto vicino quanto lontano, lasciandomi alle spalle due politici di una Repubblica indipendente, in tempi di elezioni europee, e deserta.