Marina Conti, National Geographic 30/4/2014, 30 aprile 2014
LE ISOLE DEL CIOCCOLATO
Si dice che nove persone su dieci amano il cioccolato. E la decima? Mente, o si ricrederà. Quelli che hanno assaggiato il cioccolato - africano dal seme alla tavoletta - di un fiorentino chiamato Corallo, Claudio Corallo, outsider eccentrico che ha reinventato tutte le fasi della lavorazione, compresi i processi di fermentazione ed essiccazione, sono andati oltre.
"Per motivi di sicurezza, portatevi camicia di forza e museruola nei luoghi del cioccolato Corallo", ha scritto un esperto del New York Times. "Un toscano in Africa ha creato un profumo che si mangia".
Una conquista, per un piccolo produttore che fattura poco più di 350 mila euro l’anno, un nano a confronto delle "sette sorelle", le multinazionali che controllano 1’80 per cento del mercato mondiale del cioccolato. Il segreto? «Le mie tavolette hanno il sapore del campo, non della fabbrica», dice Corallo dalle piantagioni di Sao Tomé e Principe, minuscolo Stato africano in cui è console onorario dell’Italia. Un console onorario in calzoncini e machete, che si alza alle 4 di mattina e lavora più o meno 364 giorni l’anno. Il suo motore? «Passione, curiosità, piacere di veder crescere le piante: i campi, la potatura, il laboratorio, mi piace tutto, per me non ha odore di lavoro».
Corallo - 63 anni, di cui 40 in Africa - sintetizza il concetto di terroir, la parola che i francesi usano sempre per difendere i prodotti dell’agricoltura trasformati dal lavoro artigianale: il mix tra territorio e lavoro dell’uomo che porta a prodotti unici, in grado di insinuarsi al centro della nostra geografia psichica come sapori primari del gusto. Soprattutto nel caso del cioccolato. Perché, come ha scritto Paul Richardson, cinquecento anni dopo il primo contatto del cacao con la coscienza occidentale un mondo senza cioccolato è quasi inimmaginabile.
Siamo tutti cioccolatofili, prima o poi: come i Maya, che bevevano una bevanda calda preparata con i semi triturati del cacao; come gli Aztechi, che paragonavano la fava di cacao al cuore umano; come i regnanti portoghesi e spagnoli, che si rinfrancavano trangugiando cioccolato liquido addolcito con zucchero di canna; come i gesuiti, tra i primi avvedutissimi sponsor del "cibo degli dei"; come i cardinali e i papi che si accapigliarono a lungo sulla liceità del consumo di bevande al cioccolato durante il digiuno quaresimale. O ancora come i Medici, che alla loro corte facevano mescolare il cacao agli agrumi e al gelsomino secondo ricette segrete che tutti avrebbero voluto scoprire; come Casanova, che contava sulle proprietà afrodisiache per le sue maratone erotiche; come George Bernard Shaw, che sosteneva fosse più utile in battaglia portare cioccolata che cartucce.
Fino a Jack Kerouac, il papa del movimento beat, che negli anni Cinquanta del Novecento scriveva: «In questo momento, una tavoletta di cioccolato Hershey mi salverebbe l’anima». Persino campioni di cinismo come Andy Warhol e Truman Capote. Il primo disse che dell’Italia amava due cose: la Fiat e i gianduiotti. Il secondo ingollava quantità stratosferiche di cioccolato, cui però attribuiva la tendenza all’acne.
Siamo tutti cioccolatofili e cioccodipendenti, sicuro, quando la fine di un amore ci toglie il fiato e la fantasia, la crisi ci angustia, la noia ci devasta e ci ingozziamo con tavolette, praline, ganaches e tutto ciò che capita a tiro. «Il cioccolato non è un sostituto dell’amore. L’amore è un sostituto del cioccolato. Perché il cioccolato è molto più affidabile degli uomini», ha detto Miranda Ingram. Altro che grigio. Sono le sfumature del cioccolato a far girare il mondo.
Eppure; tutti ne parlano, tutti lo vogliono, ma quanti sanno da dove viene? Che aspetto ha il frutto di Theobroma cacao? Che sapore hanno le fave di cacao prima delle molteplici trasformazioni?
Qualcuno, con ottimismo eccessivo, indica il cioccolato tra le ricette per la crisi globale: la domanda di questo alimento registra infatti una crescita annuale, con picchi elevati per il cioccolato di primissima qualità, come il cioccolato di Corallo, lavorato a mano da 250-300 persone. «I nostri alberi discendono dalle piante di cacao Forastero Amelonado nate in Amazzonia che furono trasportate da Bahia e trapiantate a Principe - le prime in Africa - nel 1819 su ordine del re del Portogallo Dom Joao VI, in vista della perdita dell’immensa colonia del Brasile (1822)», racconta Corallo.
Le piante attecchirono bene, e agli inizi del Novecento le due isole erano il primo produttore di cacao al mondo.
Negli anni Cinquanta del Novecento, però, dopo le proteste, soffocate nel sangue, dei lavoratori sottoposti a un regime durissimo, le piantagioni furono abbandonate e la selva e la foresta si ripresero tutto. Fino al giorno in cui arrivò Corallo... E tutto ricominciò. Da zero. «Ricomincio sempre da zero. Anche quando potrei prendere una via già tracciata, preferisco trovarne una nuova».
È arrivato a Sào Tome nel 1995, costretto a trasferire la famiglia a causa della precaria situazione politica nell’ex Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), racconta. «Nello Zaire lasciavamo le nostre piantagioni di caffè, 1.250 ettari, che avremmo poi perso».
Corallo approda nella Repubblica Democratica di Sào Tome e Principe, piccolo arcipelago vulcanico di giurassica e tenebrosa bellezza, sputato in mezzo al Golfo di Guinea da qualche divinità capricciosa, seguendo il suo istinto di cacciatore di materie prime, il profumo del caffè e del cacao perduto, portato nell’arcipelago tre secoli fa dai portoghesi, che usavano queste isole come luogo di smistamento degli schiavi. Mille chilometri quadrati di superfìcie complessiva (un terzo della Val D’Aosta), Pil pro capite intorno ai 1200 dollari, spiagge bianche, acque turchesi, foreste dove regnano il cobra nero e la tempesta, un gran numero di specie endeiche, questo microstato è collegato all’Europa con due voli alla settimana.
«Oggi il cioccolato è composto da molte chiacchiere, molto zucchero e molti fronzoli. Spesso poi si fa confusione: il cacao, la pianta, è una cosa; il cacao mercantile, quello che viene quotato in borsa, un’altra», dice Corallo.
«Il cioccolatino sta al cacao come la sangria al vino, e il 99 per cento dei cioccolatieri sono di fatto confettieri, confiseur, che comprano la cioccolata industriale per fare i cioccolatini», puntualizza. «Ora, peggiore è la qualità del cacao, maggiore deve essere l’intervento tecnologico per rendere commestibile un prodotto che non lo è».
La maggior parte dei cioccolatieri compra il cacao da fattorie che si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Corallo invece ricava il suo cacao, e il suo cioccolato, dalla piantagione di Terreiro Velho, 80 ettari, a Principe, che si trova a 90 miglia nautiche da Sào Tome (166 chilometri di distanza).
Qui trascorre parte del mese in una dimora coloniale dell’Ottocento dall’eleganza fanée che domina dall’alto la selva e il mare, e si addormenta guardando le stelle (non c’è il soffitto), lasciando libero accesso ad animaletti vari, compresi i numerosi pipistrelli che popolano l’isola: «Sono intelligenti, però, non come i pipistrelli di città», spiega. «Circolano, come l’aria, e svaniscono in un istante, senza dare alcun fastidio».
Nel giro di pochi anni, Corallo ha costruito qualcosa di unico, una piantagione modello che ha restituito orgoglio e speranza negli stessi luoghi dove le piantagioni sono state per la gente del luogo e per coloro che ci hanno lavorato solo fatica, stenti, sangue, dolore. Sào Tome e Principe, la prima nazione africana a coltivare il cacao, fu per alcuni anni tra l’Ottocento e il Novecento, il maggior produttore mondiale di cacao.
Di quel passato cupo e ingombrante rimangono oggi le roças, gruppi di edifici realizzati dai colonizzatori per meglio controllare il lavoro degli schiavi. Sino a oggi ne sono state censite 122, ma in totale sarebbero circa 150, e conservano paradossalmente, pur in rovina, un’aria aggraziata.
Con il coraggio di una scelta radicale e totalmente sostenibile Corallo crea il cibo del futuro, con un percorso a chilometro quasi zero, dal frutto alla tavoletta, riscrivendo la storia di luoghi in cui per secoli la parola equatore è stata associata a dolore (é-cum-a-dor, è con dolore, in portoghese arcaico).
A Terreiro Velho la distanza minima tra una pianta e l’altra è di 5-6 metri, e sono stati piantati alberi alti da ombra per creare un ambiente favorevole alle piante che, crescendo sane, non hanno bisogno di pesticidi: «La lavorazione è solo manuale, la fermentazione eseguita con il controllo continuo della temperatura. Gli essiccatoi sono stati costruiti ad hoc e la macchina per la tostatura è stata adattata. Sessanta persone lavorano – a mano – solo per la cernita e la sbucciatura del cacao».
Prima di approdare nella sua isola del cioccolato, Corallo aveva percorso una strada lunga e tortuosa. «Nel 1974, finiti gli studi di agronomia tropicale, arrivai in Zaire, per un progetto sull’agricoltura semi-itinerante. Ero attratto dall’idea di esplorare, scoprire, conoscere grandi spazi vergini dove potermi muovere, costruire. Non ho mai letto Salgari, ma mi piaceva molto Kipling e da bambino avevo costretto mia madre a portarmi a vedere tutti i documentar! sulla natura e i film di Tarzan con Johnny Weissmuller».
Presto capisce che quel lavoro non fa per lui, ma l’Africa sì: «La foresta dove ho trascorso tanti anni può essere particolarmente generosa. Mi ha insegnato a dare un giusto valore alle cose. La sua forza per me è tangibile e mi ha sempre regalato una sensazione di armonia ed equilibrio impagabili».
A Kinshasa conosce Bettina, la donna che sposerà e condividerà con lui e con i tré figli nati dall’unione anni ricchi di avventure, scoperte e colpi di scena. Affascinato dall’inattesa varietà di aromi e profumi del caffè, nel 1979 compra due piantagioni abbandonate nellex Zaire, 1.250 ettari nel cuore di tenebra della foresta, integrandosi perfettamente con la gente del luogo. E diventa un esperto nel recupero di vecchie varietà pregiate.
«Era come il paradiso, anzi, meglio», ricorda. «Calzoncini, maglietta, piedi scalzi, machete. In piantagione, dove lavoravano 1.050 persone, ricevevamo frequenti visite di bufali, elefanti e leopardi. Cerano solo poche piste, quasi invisibili. E gente vera, che per vivere coltiva piccoli campi e caccia e pesca lasciando la foresta intatta, in simbiosi perfetta». Coinvolge i piccoli coltivatori del luogo, mettendoli a parte dei suoi metodi di lavorazione e consentendo loro di ottenere un prodotto migliore. Nel corso degli anni costruisce 330 chilometri di strade sterrate per il trasporto del caffè, introduce la trazione animale, con i buoi, per risparmiare sul carburante dei trattori; e con i soldi risparmiati aumenta gli stipendi dei suoi lavoratori. Per ogni viaggio per e da Kinshasa percorre più di 3.200 chilometri sui fiumi in piroga a motore, più sicura dei trabiccoli che effettuano la tratta aerea. Nel 1989 è a capo di un piccolo impero, quando il prezzo del caffè crolla.
Riesce a risollevarsi dopo aver trascorso sei mesi da solo, nella foresta, con un’amaca e un libro, Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Nel 1995 però la situazione precipita nuovamente a causa della guerra civile e i Corallo approdano a Sào Tome e Principe.
Attratto dalla novità del cacao, Corallo convince un amico a fargli fare delle prove nella sua piantagione e si fa mandare campioni di cacao pregiato da altri paesi per confrontarli con le produzioni locali.
«In tutti i campioni trovavo sapori sgradevoli, derivati da difetti di trasformazione». Insomma, non prova quell’allegria che, dice, lo invade quando sente il profumo e il sapore di una lavorazione ben fatta. Nel 1997 ottiene dallo Stato una vecchia piantagione abbandonata a Principe, Terreiro Velho, dove la maggior parte degli alberi di cacao è sommersa dalla selva, che arriva fino al mare.
Corallo costruisce una capanna di legno sulla spiaggia per la famiglia (nel frattempo sono nati Ricciarda, Niccolò e Amedeo), e si dedica alla nuova sfida: localizzare e selezionare le vecchie e le nuove piante di cacao, nate spontaneamente. Queste ultime, racconta Corallo, sono «il frutto della selezione operata dalle scimmie, che scelgono i frutti più belli per succhiarne la mucillagine e sputano a terra i semi. Una piantagione abbandonata non è una foresta vera e propria, è piuttosto come un materasso, con pochi alberi, pieno di topi. Pulendo il sottobosco, potando gli alberi da ombra rimasti e reintroducendo varietà endemiche di alberi da ombra abbiamo ricreato le condizioni ottimali, è aumentato il numero di rapaci notturni, e questo ha fatto sparire i topi... Una piantagione è un organismo vivente: tutto deve funzionare e stare in equilibrio».
Anche grazie al terreno molto scosceso, nella piantagione (dove oggi sorgono 20 mila piante, ognuna delle quali produce circa 250 grammi di cacao) non ci sono ibridi.
Le piante originali sono quindi dello stesso ceppo di quelle importate dall’Amazzonia, di gran lunga superiori per qualità a quelle di importazione più recente. Superiori sì, ma sempre Forastero, cioè la varietà di cacao che in genere viene considerata inferiore al Trinitario e al Criollo. «Ma il vero Forastero amelonado non ha niente a che vedere con gli ibridi moderni. È il più puro, non incrociato: non ha amarezza, acidità, astringenza. Lo si trova anche in Ecuador, chiamato Ariba per il sapore».
Puntualizza: «La qualità del cacao si evidenzia assaggiando la fava, cruda, tostata o trasformata in cioccolato 100 per cento con aggiunta di zucchero. Quando si aggiunge latte, vaniglia e via dicendo, quando si legge su un etichetta che un grande cru è aromatizzato con la vaniglia del Madagascar, è come se si aromatizzasse un gran vino al chiodo di garofano».
«Il nostro 100 per cento», prosegue, «contiene il 53 per cento di burro di cacao, la stessa percentuale delle fave macinate con cui è fatto. Ma se prendo il 70 per cento di burro di cacao desodorizzato e ci mescolo un 30 per cento di cacao in polvere trattato ottengo un cioccolato che si può chiamare lo stesso 100 per cento, ma è completamente diverso... C’è una gran confusione di denominazioni, leggi e regole».
L’utopia, realizzata, chiamata Corallo ha richiesto pazienza, metodo, costanza e passione:
«Un meticoloso lavoro di schedatura, registrazioni, prove e degustazioni per trasformare i miei semi in un cioccolato che mantenga vivi e freschi i profumi del frutto appena raccolto». Insomma, dedica al cacao le stesse attenzioni
dei produttori di vino e olio d’oliva. E coinvolge gli agricoltori e i piccoli produttori del posto, mettendo a loro disposizione l’esperienza accumulata nel corso del tempo. Per non farsi mancare niente ha anche recuperato e dato nuova vita a una piantagione abbandonata di caffè, Nova Moca.
I prodotti Corallo oggi sono venduti a Nyon, in Svizzera, a Palo Alto e a Berkeley, in California, a Parigi e a Praga. Corallo però continua per la sua strada e gira per le isole su automobili scalcinate, non rimpiange l’Europa o l’Italia, salvo una passione per i sigari toscani extravecchi.
Si accalora quando descrive «il lavoro svolto nel rispetto dell’ambiente, in tutti i passaggi, fino agli imballaggi riciclabili. «La nostra non è mai stata e non sarà mai un’agricoltura di rapina, perché crediamo che salvaguardando l’ambiente salviamo il nostro futuro», dice.
Un futuro che Corallo sta già riempiendo di nuovi progetti che coinvolgono i contadini delle isole per gli ingredienti da aggiungere al suo cioccolato, come il pepe, lo zenzero e la canna da zucchero.
E un giorno, chissà, potrebbe addirittura tornare nella "sua" foresta in Congo, se la situazione del paese si stabilizzasse.
«Ho commesso degli errori, ma sono riuscito, a freddo, a riderci su», dice. Un sognatore pragmatico: «II bene è un’entità astratta, il male è concreto. Il bene, per me, è una sottrazione del male. Quando ho scelto la mia strada, prendendo in considerazione difficoltà, ostacoli e alternative, pensavo di aver inventato una gran cosa. Lo dissi a mia madre e lei battè a macchina, con una Olivetti, una pagina del Principe di Machiavelli in cui si spiega che nessuno può pensare di prendere una strada senza incontrare inconvenienti, e quindi di prendere la meno peggio per buona. Me la regalò, per dirmi "Claudino, non hai inventato niente di nuovo, era già tutto qui". E io quella pagina la conservo ancora».