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 2014  maggio 07 Mercoledì calendario

LA LOBBY DELLA PRIMA REPUBBLICA CHE OCCUPA LO SPORT

Gennaro ’a Carogna che alza il pollice, l’agguato di Gastone De Santis, l’Olimpico ombelico della cronaca. Lo scenario da horror della finale di Coppa Italia rispolvera l’italica indignazione facendo litigare i vertici dello sport. Erano tutti in tribuna autorità ad assistere alla partitaccia dell’altra sera e ora se le danno di santa ragione: rimpalli da una scrivania all’altra, con Bruno Vespa che durante Porta a Porta sorride parlando di “scaricabarile”. «È imbarazzante la reiterazione di quello che avviene negli stadi, significa che o non si è fatto nulla o lo si è fatto male» attacca Giovanni Malagò, presidente del Coni, il quartier generale dello sport italiano. Gli risponde piccato Giancarlo Abete, capo della Federcalcio: «Anche il Coni fa parte della task force del Viminale e Malagò ha applaudito alle decisioni di questo organismo». A loro si aggiunge Franco Carraro ex presidente di Figc e Coni, oggi senatore di Forza Italia, che allarga lo spettro e parla di «totale incapacità e insipienza politica e istituzionale da parte del governo nel gestire situazioni di emergenza che richiederebbero fermezza».
Prima campione di sci nautico e poi superdirigente per tutte le stagioni ribattezzato “il poltronissimo”, da trent’anni Carraro è protagonista dello sport italico in tutte le sue forme. Membro del Comitato Olimpico Internazionale e del Comitato esecutivo Uefa, presidente del Milan dal 1967 al 1973, presidente della Lega Calcio, capo del comitato organizzatore dei Mondiali del 1990, numero uno del Coni e della Figc ma anche sindaco di Roma e ministro di Turismo, Sport e Spettacolo. Beppe Grillo lo apostrofava così: «Franco Carraro, padovano di nascita, milanese di adozione, sereno di professione», il tutto nonostante le accuse di conflitto d’interessi piovute quando era capo della Figc e contemporaneamente vicino a gruppi bancari (la Capitalia di Cesare Geronzi) in affari con alcune società di serie A. Un po’ di serenità è venuta meno quando durante lo scandalo Calciopoli al timone della Federcalcio fu travolto da indagini e intercettazioni che lo portarono alle dimissioni: nel mezzo una multa di 80.000 euro comminata dalla Corte Federale mentre a livello penale nel 2009 viene prosciolto dall’accusa di frode sportiva.

Oggi davanti alle macerie dell’Olimpico tornano tutti, almeno per una dichiarazione. Vecchie glorie e nuovi boiardi in un valzer di indignazioni da parte di chi, a vario titolo, ha comandato lo sport italiano o ne ha influito su destini e denari. La macchina amministrativa è più complessa di un semplice ministero, qualcuno parla addirittura di «carrozzone» : fiumi di soldi in arrivo dalle casse pubbliche, un groviglio di uomini «evergreen» che hanno usato le porte girevoli della politica, democristiani di ferro impermeabili agli eventi, federazioni non sempre immuni da scandali, sprechi e rimborsi gonfiati, vigilanza in alcuni casi a maglie larghissime, presidenti che accumulano potere multiforme e pluriennale. La rottamazione è una brezza leggera sul lungomare dello sport dove qualcuno sussurra: «Siamo fermi alla Prima Repubblica». Gli esempi non si contano: la pur eccellente anomalia italiana degli atleti militari stipendiati dallo Stato come un’unione Sovietica qualunque, o il caso della Lega Nazionale dilettanti (calcio) dove c’è un unico laboratorio autorizzato a testare e omologare i campi sintetici delle società (pratica richiesta periodicamente) ed è quello del figlio del consulente della Lega.
Sabatino Aracu, ex deputato di Forza Italia per quattro legislature condannato in primo grado per tangenti, da 22 anni presiede la federazione Hockey e pattinaggio. Intervistato da Report, dice di non mollare nonostante le statuizioni del codice per i dirigenti delle federazioni: «Ritengo che il codice etico sia abbastanza incostituzionale». Poi c’è il presidente della Federtennis Angelo Binaghi, in sella dal 2001, che ha varato la tv SuperTennis, un gioiellino costoso il cui editore fino a poche settimane fa era lo zio dello stesso Binaghi ed ex candidato sindaco di Cagliari per il Pdl Carlo Ignazio Fantola. Oggi la poltrona spetta a Francesco Soro, già capo di gabinetto del presidente del Coni Malagò. Un altro manager longevo è Paolo Barelli, senatore di centrodestra per tre legislature e dal 2000 presidente della potente Federnuoto, fortino blindato tra campioni e polemiche, mentre Carlo Magri, numero uno della Federazione Volley, porta palla dal 1995.
Dal 2009 Maurizio Beretta è il presidente della Lega Serie A (ex Lega Calcio), l’organo che gestisce i maggiori tornei professionistici italiani: dalla serie A alla Coppa Italia. Già direttore di Rai Uno, responsabile delle Relazioni Esterne Fiat e d.g. di Confindustria, oggi fa anche il top manager di Unicredit. Di lui parla il faccendiere Luigi Bisignani nel libro L’uomo che sussurra ai potenti, raccontando come costruì la nomina nel palazzo del pallone. Spiega Bisignani: «Mi venne a trovare Beretta. L’Allora presidente di Confindustria Marcegaglia lo aveva ingiustamente sostituito alla direzione generale della Confederazione. Arrivò da me avvilito. Parlando con lui ebbi l’intuizione che potesse essere un ottimo candidato per la presidenza della Lega Calcio, in quel momento lacerata da guerre intestine. Gli spiegai perché e lui rimase incredulo e basito». Il racconto di Bisignani prosegue: «Cominciai a parlarne ad alcuni amici che bazzicano il mondo dello sport, da Lotito a Briatore. La battaglia a un certo punto si era fatta difficile, io mi divertivo mentre Maurizio seguiva un po’ scettico il corso degli eventi. Una mattina mi chiamò e disse: “Grazie tante Luigi, ma io mi ritiro”. Rammentandogli che entrambi eravamo democristiani gli risposi: “La differenza tra di noi è che io sono andreottiano, perciò tenace. Tu della sinistra, ovvero di quelli che mollano subito”». Alla fine Beretta è diventato presidente della Lega e sabato scorso era seduto in tribuna per Fiorentina-Napoli.
Dopo i fatti dell’Olimpico per alcuni l’“imputato” è Giancarlo Abete, imprenditore romano dal 2007 numero uno della Figc, nei fatti il primo ministro del pallone e fratello di Luigi Abete, già presidente di Confindustria, oggi di Bnl e altro uomo per tutte le stagioni. Nella carriera di Giancarlo due stelle polari: l’industria tipografica di famiglia e la politica con la Democrazia Cristiana. Entrò in Parlamento nel 1979, a 28 anni, dopo una campagna elettorale giocata sul suo nome tappezzando Roma con manifesti raffiguranti abeti e «poi quando tutti si erano convinti che fosse una campagna ambientalista feci comparire il nome e il numero in lista». Forlaniano, alla Camera soggiornò per tre legislature fino al 1992, poi lo sbarco nel Palazzo del pallone con una carriera tutta in ascesa: capo del settore tecnico Figc, Lega Professionisti Serie C e vicepresidente della Federazione, fino alla poltrona di presidente maturata nel 2007 e conservata tuttora, impreziosita dal 2011 con la vicepresidenza Uefa. Adesso va dritto fino alla scadenza dell’ultimo mandato, in data 2017. Poi chissà, ma qualcuno già ipotizza per lui una corsa al Coni.
Durante lo scandalo Calciopoli era vicepresidente della Federazione e si beccò la strigliata di Candidò Cannavò: «Lei è certamente una persona perbene, competente, sempre defilata, mai coinvolta in uno scandalo e neanche in una semplice chiacchiera da bar, ma ammetterà che essere ciechi e silenziosi dinanzi agli imbrogli e dissesti morali come quelli che hanno devastato il calcio non significa avere in tasca patenti di innocenza». Lui ne esce a testa alta e in estate è capo delegazione dell’Italia campione del mondo a Berlino. Oggi a puntare il dito contro Abete c’è lo scrittore Roberto Saviano che dopo i fatti dell’Olimpico ha chiosato: «Genny ’A Carogna è la comoda scorciatoia, ma sono altri i responsabili dei disastri degli ultra, uno tra tutti Giancarlo Abete, ministro del calcio da sette anni, non comprende le connessioni tra il suo ruolo e le infiltrazioni della camorra nelle curve».
Profilo istituzionale e linguaggio posato. Più di uno rimprovera eufemisticamente al numero uno del calcio di «non aver fatto abbastanza» in questi anni in cui i problemi di curve e ordine pubblico si ripresentano ciclicamente con annesse indignazioni postume. Forse qualche onere spetta in primis al legislatore, ma tant’è. Alla schiera di critici si aggiunge il presidente del Coni Giovanni Malagò, che ultimamente ha avuto diversità di vedute con Abete. I motivi della «guerra fredda» pre-Olimpico poggiano almeno su due circostanze. La prima è la riforma della giustizia sportiva voluta da Malagò e scritta da un team guidato dal prof Giulio Napolitano, figlio di Re Giorgio. Il testo e le modalità pare non siano affatto piaciuti ad Abete, guidando sin dall’inizio il fronte dei contrari. Il secondo motivo riesiede nel prossimo ridimensionamento del sistema dei contributi economici erogati dal Coni alle federazioni sportive, che Malagò si appresta a cambiare dando maggiore importanza alle federazioni olimpiche e riducendo il peso del numero di iscritti. Risultando così a rischio il «tesoretto» ricevuto annualmente dalla Federcalcio, che nella spartizione della torta gioca da prima della classe.
Ogni anno il Ministero dell’Economia gira 411 milioni di euro al Coni, ente pubblico che gli addetti ai lavori definiscono «il vero ministero dello sport» curandone l’organizzazione e il potenziamento, porta in pancia 45 federazioni per un totale di 11 milioni di tesserati. Alle federazioni vengono corrisposti 150 milioni, ma la fetta più grossa (62 milioni) finora è spettata al calcio. Con Abete che ha più volte messo le mani avanti: «Il sistema calcio dà 1 miliardo e 50 milioni all’anno come contribuzione fiscale e previdenziale mentre dal Coni prende 62 milioni». Adesso però sarebbe pronta la scure di Renzi: a Palazzo Chigi si vocifera di una riduzione tra il 15 e il 20% dei fondi destinati allo sport, tagli che graverebbero sul Coni e a cascata sulle federazioni. Il gioco del calcio è croce e delizia per il presidente Malagò, grande tifoso romanista eletto a sorpresa nel 2013 a Largo De Bosis. Nel suo programma elettorale prometteva un ridimensionamento del calcio nelle stanze dei bottoni anche perché «la sua sottocultura negli ultimi vent’anni ci ha creato enormi danni d’immagine» e «con me il calcio non avrebbe avuto posto in giunta». Arrivato da rottamatore battendo il candidato “dell’apparato” Raffaele Pagnozzi sostenuto dall’uscente Petrucci, Malagò ha ottenuto la maggioranza dei voti dei grandi elettori e dei presidenti di federazione, alcuni dei quali sono poi stati “promossi”. Il numero uno del Badminton Alberto Miglietta oggi è anche amministratore delegato di Coni Servizi, braccio operativo del Comitato partecipato al 100% dal Mef, mentre il nuovo presidente della medesima compagine è Franco Chimenti, capo della Federgolf.
Sin dall’inizio Malagò ha marcato le distanze dal monopolio italico del divin pallone e anche oggi non cammina al fianco di Abete. «Giovannino», come lo chiamano in molti, può farne a meno. La sua agenda è zeppa di contatti ben più prestigiosi e il suo curriculum è quello del perfetto uomo delle relazioni, inserito nei salotti che contano, pariolino trasversale e imprenditore di successo. Amico di Gianni Letta e Corrado Passera, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Luca Cordero di Montezemolo e Francesco Totti. A quest’ultimo, nel gioco di accostare un politico a un fuoriclasse, ha recentemente paragonato Matteo Renzi. «Non nego di andare orgoglioso di avere un grande capitale di rapporti umani», risponde lui che ha visto attribuirsi flirt con Martina Colombari, Anna Falchi e Monica Bellucci. «Megalò», così lo soprannominò Susanna Agnelli, era il punto di riferimento romano per l’Avvocato che di buon mattino gli telefonava per avere news dai salotti capitolini. Oggi è socio in affari del nipote, Lupo Rattazzi. Cesare Lanza lo descrive «bello, ricco, simpatico, seducente, pariolino doc, mille relazioni importanti. In una leggenda che si arricchisce giorno per giorno c’è tutto quello che può rendere invidiabile un maschio adulto italiano». Scuole private al collegio San Giuseppe De Merode, Malagò nasce concessionario di auto di lusso: con il padre Vincenzo amministra la Samocar, paradiso di Ferrari e Maserati. Ma il suo campo di azione e amicizie è più vasto, avendo collezionato poltrone nei cda di Air One e Unicredit, fino alla Fondazione Cinema per Roma e alla presidenza del Comitato organizzatore dei Mondiali di Nuoto del 2009.
Ancora prima del Coni l’incarico di Malagò che fa invidia nella Capitale è quello di presidente del circolo Canottieri Aniene, blasonatissimo dopolavoro della Roma bene, emblema del potere dei circoli sportivi, sgambatoi di lusso a metà tra la caricatura di Simpatici e Antipatici di Christian De Sica e oasi degli interessi più importanti che scorrono in città. Gioiello di managerialità illuminata, l’Aniene raccoglie il meglio dello sport italiano (Federica Pellegrini, Flavia Pennetta) e i destini della vita politico-economica del paese. Raccontava lo stesso Malagò a Claudio Cerasa del Foglio: «Il clima che si crea nella nostra struttura ha dato la possibilità di dare vita ad aggregazioni tra banche, di favorire importanti intese politiche. È successo più volte che soci illustri dell’Aniene abbiano concluso grandi affari nel nostro circolo ma questo avviene in maniera non voluta. Diciamo pure casuale: qui si mangia, si beve, si gioca a tennis, si fuma un sigaro, si parla, non so, della Roma, dell’Alitalia scattano i meccanismi di complicità, si risolvono i problemi e si concludono accordi. Sarebbe stupido nasconderlo: l’Aniene significa sport ma in un certo senso significa anche business».
Basta dare uno sguardo alla lista dei soci illustri del circolo per trovare cognomi come Benetton, Romiti, Tronchetti Provera, Angelucci, Rizzoli, Caltagirone e Abete (Luigi). Un cenacolo onnicomprensivo dove oltre a politici e vip, spiccano i big che hanno guidato o guidano ancora oggi lo sport italiano: dall’ex sottosegretario Rocco Crimi a Franco Chimenti della Federgolf fino a Josefa Idem, sostenuta dal Canottieri di Malagò tanto nella veste di atleta quanto da senatrice nella corsa al ministero. Poi c’è Mario Pescante, sottosegretario dei Beni Culturali nei governi Berlusconi due e tre, già presidente del Coni e numero due del Cio nonché testimone di nozze di Gianni Petrucci, anche lui socio dell’Aniene ma soprattutto predecessore di Giovanni Malagò al piano più alto del Comitato Olimpico Nazionale.
Scuole dai salesiani, sindacalista della Cisl poi cercato dall’Udc di Casini per una candidatura nazionale, Petrucci entra al Coni nel lontano 1967 «grazie a una segnalazione di uno zio». Considerato vero dominus dalle parti di Largo De Bosis è stato capo del Coni dal 1999 al 2013, lasciando l’incarico «per raggiunti limiti di età». Ma la fredda formula burocratichese non lo ha spaventato e Petrucci si candida a sindaco vincendo le elezioni comunali di San Felice Circeo, perla marittima a sud di Roma, sostenuto da Renata Polverini e Gianni Alemanno. Pensione dorata in spiaggia? Nient’affatto. Sempre nel 2013 approda alla presidenza della Federazione Italiana Pallacanestro, che già guidò dal 1992 al 1996 dopo esserne stato segretario generale dal 1977 al 1985. Da qualche anno la palla a spicchi vive un momento cruciale: pochi soldi, appeal mediatico ridotto all’osso, squadre storiche come Treviso scomparse e altre come Siena che rischiano di saltare. Il nuovo incarico, oltre a sfidarlo in una missione complessa, permette a Petrucci di restare nelle stanze dei bottoni: in quanto presidente di federazione ha accesso al consiglio nazionale del Coni. Alla fine, soprattutto nello sport, l’importante è partecipare.