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 2014  maggio 07 Mercoledì calendario

«40 PAESI IN PIÙ, 8 ANNI IN MENO». INTERVISTA A SAVIANO

Ormai a New York è quasi di casa ma gli piace ancora perdersi camminando come faceva la prima volta che ci ha vissuto, quindi all’ora dell’appuntamento chiama per dire che sarà in ritardo. Dovevamo vederci sulla High line, il binario della ferrovia trasformato in parco lungo il fiume Hudson, ma c’era troppa gente, e abbiamo cambiato.
Camminiamo lungo il fiume, sopra di noi passa un aereo che traina uno striscione: «Ecco, ci hanno trovato», dice lui scherzando. In realtà è una pubblicità della scuola Montessori. Ridiamo. Mi racconta che tre giorni la settimana tiene all’università di Princeton un seminario intitolato «Economia politica e criminalità organizzata». Dice che il campus con i leprotti e gli scoiattoli che si rincorrono in tutto quel verde gli ricorda il Gran Burrone del Signore degli anelli. Tanto silenzio, tanta quiete ma anche un filo di noia, e quindi il resto del tempo lo passa a New York vedendo pochissimi nuovi amici: l’ultimo è Nouriel Roubini, l’economista diventato famoso per avere visto per primo la grande crisi economica del 2008.
Non vede italiani? «Cerco di evitarli, mi fanno venire troppa nostalgia».
È complicato passare del tempo con Roberto Saviano, e non è solo perché anche a New York vive sotto l’occhio attento degli uomini che salvaguardano la sua sicurezza, in questo caso agenti della polizia americana. No, il fatto è che un attimo scherzi con un ragazzo normale e l’attimo dopo quello si ritira per lasciare il posto all’uomo la cui vita è stata inghiottita in uno dei buchi più neri della vita italiana.
I demoni sono tornati ora che Gomorra è diventato una serie televisiva in onda su Sky (che l’ha realizzata, insieme con Cattleya), ispirata al libro che ha cambiato la sua vita. «È come se si fosse riaperta la ferita. Dire che ora guardo con un certo risentimento a quel libro mi sembra solo onesto. E oggi quello che ho perso mi manca: mi mancano i 26 anni, l’età che avevo quando è stato pubblicato Gomorra. Mi manca avere 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34 anni. E per cosa? Guarda che cosa sta succedendo. Mi è spiaciuto mancare alla presentazione della serie, ma in questo momento mi angoscia moltissimo l’idea di tornare in Italia».
L’Italia che lo ama e che lo odia la incontra ogni mattina aprendo la sua pagina Facebook, dove sta per raggiungere i due milioni di follower. Nel penultimo post ha dedicato il primo maggio a Roberto Mancini, il poliziotto morto per un tumore contratto investigando i terreni pieni di rifiuti tossici che ora conosciamo come la Terra dei fuochi. L’ultimo lo ha scritto su Gennaro De Tommaso detto «’a carogna», che guidava gli ultrà napoletani nella finale di Coppa Italia: «Ci si accorge solo ora che nella tifoseria organizzata napoletana (e non solo) camorra e criminalità comandano?».

Pensa veramente che comandino loro ormai?
«Da sempre le curve sono infiltrate dalle organizzazioni, se ne accorgono solo ora quando il capo ultrà dal nome feroce e ridicolo riesce a calmare la tifoseria e a non far mettere a ferro e fuoco una città? I veri responsabili di ciò che è accaduto si trovano però tra i dirigenti della Figc: Giancarlo Abete non è riuscito a ottenere un calcio pulito, non ha realizzato riforme, non ha fatto altro che mediare subendo quindi i peggiori poteri interni al calcio».
Il primo maggio i rapper Clementino e Rocco Hunt hanno detto che Napoli è il nostro Bronx.
«Ma la verità è che il Bronx è molto meglio di certe zone di Napoli, ora. Nel Bronx la gentrificazione recupera le zone più devastate, ci sono le scuole migliori dello Stato di New York. Il Bronx malfamato è un’idea degli anni Ottanta, la realtà è diversa ed è per questo che è importante raccontarla: solo così puoi cambiare. Proprio raccontando e investendo il Bronx è cresciuto, e tra dieci anni sarà uno dei quartieri più costosi di New York. Ora mi accusano di mostrare la parte peggiore della mia terra con la serie Gomorra, ma non è stato nascondere la violenza che ha portato verso il futuro il Bronx o gli altri posti che erano stati divorati dalla criminalità. I colombiani non protestano per la serie su Pablo Escobar: è proprio la rappresentazione della sua realtà che ha trasformato la Colombia in una delle democrazie più vitali del mondo. Medellín magari nell’immaginario resta la capitale del traffico di droga, ma nella realtà è una città rinata che sta vivendo un boom economico. Raccontando è cambiata. I tedeschi non bloccano i lavori sulla Germania nazista, la Danimarca non impedisce che Marcello dica nell’Amleto “C’è del marcio in Danimarca”, né accusa Shakespeare di averla diffamata per secoli… Il racconto delle cose va ben oltre queste polemiche superficiali».
Dicono che Scampia è già cambiata, e che lei la diffama.
«Ma chi è che diffama Scampia? L’imprenditoria che non funziona, la corruzione, gli assassini oppure io? Attenzione, perché questa polemica nasconde una furbizia. Attaccare me dà visibilità e permette di non rispondere a questi poteri. Perché fanno i manifesti contro di me, quelli con il gioco di parole Scampiamoci da Saviano? Perché non ci sono mai attacchi ai clan? Perché i clan vengono considerati scontati, fisiologici, e in qualche modo persino degli interlocutori. Raccontare significa trasformare, fino a quando non si capisce questo si sta ragionando su un equivoco».
Quello che colpisce della serie è l’assoluta normalità di quello che succede: i camorristi baciano la moglie e mettono a letto i bambini dopo essere tornati dal lavoro, solo che invece di essere stati in ufficio hanno bruciato qualcuno.
«È quello che accade: abbiamo mostrato la realtà semplicemente per quella che è. E nel farlo abbiamo cercato di ragionare su quanto di quelle persone c’è dentro di noi. Sono le stesse domande che ti poni di fronte al protagonista di Breaking Bad, che si mette a produrre metanfetamine dopo avere saputo di avere un tumore, per salvare la famiglia che si lascerà dietro. Farei mai io quelle cose? Se non le faccio, è perché sono coraggioso o perché sono codardo? Quante volte ho avuto voglia di comportarmi così? Quel personaggio non è solo un professore cattivo: non esiste un’unica strada che conduce alla giustizia, alla salvezza. Non c’è un percorso unico».
Quali serie americane le piacciono?
«Tante, perché c’è un enorme investimento nella qualità della scrittura. Oggi le serie sperimentano più del cinema. Mi piace Breaking Bad in maniera incredibile. Mad Men, una serie che ti cattura anche se non c’è una sola scena violenta, non un morto. The Americans, bellissimo perché racconta le finzioni di una coppia attraverso le finzioni delle spie. I Borgia di Tom Fontana che ha la forza della filologia perché racconta il Cinquecento attraverso una fotografia accuratissima. Ma persino Spartacus, che mi è piaciuta assai meno, è più autorevole di qualunque serie italiana».
Si spieghi meglio.
«Condivido quanto ha scritto Vice (il network con sedi in tutto il mondo, nato dal magazine fondato a Montreal nel 1994, ndr): da noi le fiction sembrano già digerite da qualcuno per evitare che lo spettatore si possa strozzare. Il problema non è solo il moralismo e il buonismo di cui sono imbevute: le nostre serie sono il prodotto della trattativa politica, c’è dentro la par condicio, attori che devono rappresentare quote morali. La quota del bene, del male, del Nord, del Sud, della destra della sinistra. E a produrre dirigenti che di Tv non capiscono nulla perché sono manager politici. La forza del nostro progetto è non avere fatto un prodotto semplice, in un momento in cui tutti tendono a semplificare. Gomorra è antagonista a tutte le serie fatte finora, all’idea che per educare si debba imporre».
Sta parlando delle serie Tv come se potessero cambiare il Paese: non le sembra troppo?
«No, io penso veramente che il cambiamento possa partire proprio dal racconto della realtà. Dall’arrivo di Netflix in Italia. Dalla Rai che comincia a fare serie non buoniste, non educative».
Una cosa certa è che l’abbandono del buonismo sembra pagare, almeno nel vostro caso: ancora prima di andare in onda Gomorra è stata già venduta in oltre 40 Paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti dove è stata comprata da Harvey Weinstein, il produttore storico di Tarantino. Che effetto le fa?
«Ne sono orgoglioso, anche perché è il riconoscimento del profondissimo know how che noi italiani abbiamo nel raccontare la criminalità. Pensi se Francesco Rosi avesse potuto fare una serie su Salvatore Giuliano, invece di comprimere la sua storia in due ore di film: Rosi col suo modo di raccontare è il padre ideale delle serie Tv. Abbiamo le mafie più antiche e quindi abbiamo vissuto un contrasto continuo che ci ha reso esperti. È come essere esperti nel contrastare una malattia: sulla criminalità siamo il Center For Disease Control. È un onore raccontare queste cose al mondo attraverso una serie o portare l’economia criminale a Princeton. Senza nessuna paura di diffamare in questo modo l’Italia».
Che cosa insegna ai suoi studenti?
«La prima lezione che ho tenuto è iniziata così: “Cosa sei disposto a fare per i soldi?”. Per l’organizzazione mafiosa c’è una sola risposta possibile: tutto. Perché se non sei disposto a fare tutto, allora ciao, hai perso sul mercato: se c’è da fare il buono fai il buono, se c’è da ammazzare qualcuno ammazzi, se c’è da andare in galera ci vai come sta facendo Nicola Cosentino. Solo chi non conosce le mafie pensa che andare in carcere voglia dire essere deboli: al contrario per la cultura mafiosa andarci e rispettare la regola del silenzio significa essere un vero condottiero, uno in grado di governare un’azienda. Significa essersi relazionati bene a certi poteri».
E la legge?
«La legge che ti arresta, in questa logica è solo un concorrente sleale, che non riesce a vincere con le armi del mercato. È per questo che queste persone vincono. Cosentino ha capito che il problema vero è l’impunità: quando vede la galera il nostro Paese perdona. Peggio. Quello che sta accadendo è che il Paese ha cominciato a pensare che i politici siano peggio dei mafiosi: in fondo il mafioso fa il suo mestiere, il politico no. La politica oggi è fragile, fragilissima. Prova a dire oggi consigliere comunale o assessore. Sembrano sinonimi di ladro e criminale. Quando invece dovrebbero essere ruoli alti, preziosi. Le istituzioni non hanno più autorevolezza – in alcuni casi hanno solo autorità – e se non la recuperano sono spacciate».
La fa stare male?
«Ogni tanto devo calmarmi, perché mi sale una rabbia senza fine, una rabbia malinconica che mi porta a dire che fa tutto schifo, e questo è esattamente quello che i clan vogliono. Ma pensando al Paese reale credo che l’unica strada possibile per i giovani sia emigrare. Come ha onestamente detto qualche tempo fa il primo ministro portoghese Pedro Passos Coelho. Anche il nostro ministro del lavoro Giuliano Poletti dovrebbe con molto coraggio dichiarare che questa è l’unica soluzione possibile ora. Inutile dire che ci sarà lavoro quando non ci sarà. Se fermi un ragazzo o una ragazza per cinque anni, dopo lauree, master, stage e ancora nulla, gli hai distrutto la giovinezza. Non puoi chiedere a un giovane di congelarsi. Poletti dovrebbe aprire degli sportelli per favorire l’esodo, dicendo però anche: vi aiuteremo a tornare, troveremo le agevolazioni fiscali per farlo. Ma nel frattempo andatevene, perché restare non significa solo galleggiare ma anche assuefarsi a quello che è ora il Paese. E cioè farsi aiutare perché non ce la si fa, vedere i propri anni migliori sprecati».
È per sfuggire a questo clima che se n’è andato?
«Me ne sono andato perché volevo provare a riprendermi la vita. In Italia c’è un clima che rende impossibile progettare. E poi lo stress, l’isolamento, la pressione...».
È per questo che ha cominciato a prendere psicofarmaci, come ha detto a un giornale spagnolo?
«Quell’intervista è stata pubblicata ora, ma è di un anno fa, e ha ingigantito quello che ho detto: ogni tanto prendo dei tranquillanti per dormire. Non me ne vergogno: la mia è una situazione insopportabile. Pensi al processo in corso ora per le minacce nei miei confronti. Due boss rinviati a giudizio perché hanno fatto leggere ai loro avvocati un documento che l’antimafia ha considerato una minaccia. Quando mi sono presentato in aula sono stato travolto dall’arroganza di questi avvocati di camorristi. È stato quel giorno che ho deciso di andarmene: mi dica lei in quale Paese al mondo due capi criminali sono rinviati a giudizio per minacce alla libertà di stampa. È una notizia incredibile, ma da noi una delle tante. Il Paese doveva indignarsi, proteggere e invece l’attenzione si è spostata e la gente pensa che sia più importante blaterare, urlare, insultare. Non tutti per fortuna...».
Si sente isolato?
«La berlusconizzazione della cultura è questa: siamo diventati un Paese di tifosi. Renzi, Grillo? Non è importante capire ma tifare per l’uno o per l’altro. Vince solo il cinismo del tweet barzellettaro, il gioco di parole, la scoreggia sintattica, la battuta a effetto. La palestra degli aspiranti intellettuali spesso è fare una pernacchia dopo qualsiasi affermazione, non affrontare temi o avere contenuti. Ecco, io cinismo e freddure li trovo insopportabili. Io mi sento un ragionatore».
Riesce a ragionare di più a New York?
«Questa è una città che continua a stupirmi per la grazia feroce con cui ignora tutto, tanto sa di potere attrarre il meglio che c’è al mondo, e che saprà riconoscersi senza paura nel nuovo».
Una volta era stupito dalle regole del dating, degli appuntamenti per single in cerca di compagnia: è ancora così?
«Le regole del dating posso ignorarle, adesso (ride, ndr). Vivo una meravigliosa solitudine, voglio tenere tutti a distanza, anche perché una delle cose che arrivano con la fama è che le persone si relazionano a te solo per chiederti qualcosa. Solo i libri ti danno senza pretendere favori, promesse, scambi. Le sembrerà strano ma nei libri trovo l’unica resistenza e conforto. I libri restano la famiglia che mi protegge e con cui condivido i momenti migliori».
Che cosa sta leggendo ora?
«In questi giorni sto leggendo Martin Buber, In relazione con Dio. Non sono religioso ma leggo spesso testi religiosi e Buber è un grande esegeta (Saviano è di origini ebraiche da parte di madre, ndr) che ha raccolto i racconti hassidici. Un paio di volte sono andato ad ascoltare quei racconti nelle case stesse di quegli Hasidim che qui a New York ti fermano per strada e ti chiedono se vuoi fare Shabbat da loro».
Che cosa ama della cultura ebraica?
«L’importanza della memoria e del racconto. In uno dei racconti che mi piace di più ci sono due rabbini che dibattono se un forno per alimenti, in formelle sigillate con sabbia, sia puro o impuro. Uno dei due dichiara: “Se ho ragione io, che il fiume cambi corso”. E d’improvviso il fiume cambia corso. “Se ho ragione io, che gli alberi abbiano le radici in cielo e le fronde in terra”. E gli alberi fanno un gran rumore, si sradicano e si ribaltano. Gli studenti che osservano la scena sono immobili. Il rabbino insiste: “Se ho ragione, che Dio dica con la sua voce che ho ragione”. E il cielo si apre e Dio dice: “Hai ragione”. Al che gli studenti dicono: “Vabbè, abbiamo visto, ma ora dimostracelo”. Questa storia descrive il mio modo di sentire. Non c’è obbedienza, neanche la voce di Dio può dirmi che una cosa è giusta, ci si deve arrivare attraverso il continuo ragionare intellettuale ed empirico. È un continuo combattere con l’angelo della verità».
Se l’angelo della verità fosse venuto a dirle che cosa sarebbe accaduto dopo Gomorra l’avrebbe scritto comunque?
«Se me lo avesse detto nel 2005, mentre lo stavo scrivendo, avrei avuto sicuramente la stupidità di rispondere: che bello, avrò coraggio e combatterò questa guerra. Se invece l’angelo arrivasse ora e mi dicesse di tornare indietro nel tempo, gli prenderei la mano e scriverei Gomorra diversamente. Non so come, ma mi difenderei di più. Combattendo, però, la stessa battaglia».