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 2014  maggio 07 Mercoledì calendario

“OPERAZIONE SECONDA CHANCE. INTERVISTA A GINO STRADA”


«Sono un uomo fortunato. Mi piace il mio lavoro, è quello che ho sempre voluto fare e, a Kabul come a Khartum, mi sveglio contento di andare in ospedale. Anche se poi devo vincere la nausea, la rabbia, la voglia di girarmi da un’altra parte quando vedo sul tavolo operatorio un bambino disfatto dalla guerra o dalla povertà, o da tutt’e due».
L’uomo fortunato è Gino Strada, 66 anni, fondatore vent’anni fa di Emergency, che dal 15 maggio 1994 ha curato – gratis e con altissimi standard medici – 6 milioni di persone, una ogni due minuti. In 16 Paesi del mondo, quasi sempre teatri di guerra, dal Ruanda all’Afghanistan, ma anche in Italia.
Quando arriva nella sede centrale dell’ong a Milano, Strada sembra dimostrare tutti i suoi 66 anni. Capelli bianchi come la barba, taglio da 10 euro del suo barbiere di fiducia, leggermente curvo. Jeans calanti, maglietta e giacca scure, mocassini di cuoio. Non è stato facile incontrarlo, dopo due tentativi falliti in Afghanistan e in Somalia: in Italia vive solo due mesi all’anno. Anche per i ragazzi che lavorano qui è un’apparizione, lo guardano quasi come un profeta.
Nemmeno l’uomo all’inizio sembra facile, orso come da look: «Ho poco tempo, devo andare a prendere mio nipote all’asilo, non lo vedo da 6 mesi». Chiacchiera dell’Inter, mi studia. Quando si inizia a parlare dei 20 anni di Emergency, man mano «si accende», di passione, ironia e fascino. Risultato: dimostra vent’anni meno e il «poco tempo» diventano due ore, accompagnate da battute, parecchie parole irriferibili e molte sigarette. Preciso nei dati come negli interventi chirurgici; registro ironico, spesso amaro; capacità oratoria, mimica e cultura. Si affaccia la figlia Cecilia, presidente di Emergency dopo la morte della madre Teresa, cinque anni fa: «Vabbè, Leone lo vado a prendere io, ci sentiamo dopo». Quella frase deve averla detta, con lo stesso sorriso, parecchie volte.
15 maggio 1994. Come e perché inizia la storia di Emergency?
«Eravamo una dozzina di amici, tutti già esperti di teatri bellici. Venivo dalla Croce Rossa internazionale, che aveva deciso da poco di tagliare gli investimenti in chirurgia di guerra: troppo pericolosa, troppo costosa. Volevamo “fare qualcosa” perché il bisogno di aiuto era enorme. Soprattutto, c’era il genocidio in Ruanda in quel momento».
Si immaginava che cosa sarebbe diventata Emergency?
«Per niente, nessuno lo pensava e nemmeno lo cercava. Già due anni dopo, però, ci scoprimmo molto più importanti, grazie a una cartolina».
Racconti.
«Nel giugno 1996 abbiamo lanciato un appello per mandare all’allora presidente Scalfaro una cartolina per fermare la produzione di mine antiuomo, di cui l’Italia era uno dei principali esportatori. In un mese ne furono spedite al Quirinale un milione e mezzo. Da allora è iniziata una storia più grande».
Come è andata a finire quella campagna?
«È stata vinta, grazie a uno dei pochi sussulti recenti dell’opinione pubblica. In Italia sono state proibite. Oltre 150 Paesi hanno aderito alla Convenzione di Ottawa del 1997, che le bandisce. Peccato manchino Usa, Cina, Russia, India e Pakistan, i più grandi produttori di quest’arma doppiamente diabolica».
Perché doppiamente?
«Costruire armi è di per sé un’attività criminosa. Se uno spara con una pistola, almeno ha un bersaglio. Chi butta 50 mila mine dall’alto sopra ai villaggi, no. Colpisce a caso e per molto tempo: le mine antiuomo sono waterproof, di plastica, praticamente indistruttibili. Non uccidono, ma mutilano per sempre. Le attività più a rischio? Raccogliere legna e giocare. Quelle sovietiche le troviamo ancora in Afghanistan, in Ruanda incontrammo anche quelle italiane».
Come andò in mezzo al genocidio africano?
«Riuscimmo a dare una mano. Fu il nostro primo intervento. Ci servivano 250 milioni di lire. A fine maggio 1994 eravamo saliti a 25 membri. Riunione a casa mia: pensammo di far cambiali da 10 milioni a testa. Ma dopo che io in giugno per la prima volta andai in Tv, al Maurizio Costanzo Show, ci ritrovammo le spese più che coperte: 800 milioni di lire arrivati da gente comune».
Oggi quant’è il budget?
«30 milioni di euro all’anno. Tantissimo per noi, briciole in senso assoluto. Un solo giorno di guerra in Afghanistan costa agli Stati Uniti 200 milioni di dollari, in Italia è stata da poco rifinanziata questa missione con 800 milioni di euro all’anno. La guerra è anche un danno economico per l’umanità, una pratica che riduce drammaticamente le risorse».
Facendo due conti?
«Le spese militari equivalgono a quanto ha a disposizione per vivere il 40% della popolazione mondiale: può bastare per pensare di abolire la guerra?».
Emergency è partita subito con questo obiettivo?
«All’inizio si pensava solo a operare, operare, operare. E ad aiutare. L’idea di base l’aveva già dettata mia moglie, presidente fino alla sua morte, il 1° settembre 2009: “Le nostre devono essere strutture in cui vorremmo essere ricoverati e operati noi e i nostri figli”. Ci siamo sempre rifiutati di “portare medicina da Terzo Mondo nel Terzo Mondo”».
Quanto ha contato Teresa?
«Ha contribuito più di tutti. È stata l’anima di Emergency e ha costruito questo movimento eterogeneo, con radici culturali molto diverse. Teneva insieme tutto».
Come è riuscito a sopravviverle?
«È stata una botta micidiale, per me, per Cecilia, per tutti. Ci eravamo sposati nel 1971 dopo un fidanzamento di qualche anno. Sa, avevamo cominciato da ragazzini molto precoci… A rendere sopportabile il dolore sono stati il condividerlo con migliaia di persone e l’idea di portare avanti Emergency nel suo nome».
Anche l’idea di intervenire in Italia è stata sua?
«Quella è mia, l’abbiamo presentata al nostro incontro nazionale del 2003. Era figlia di una svolta più generale. Non volevamo più operare e basta. Ci voleva un obiettivo. Da qui l’idea di fare della medicina un modo per promuovere i diritti umani e la pace».
L’Italia che cosa c’entrava?
«Ci siamo accorti che i diritti umani venivano violati non solo oltreconfine. Nel 2006 abbiamo aperto il primo poliambulatorio a Palermo offrendo assistenza gratuita soprattutto ai migranti».
Nel 2009 arriva «Io non ti denuncio».
«Si invitavano i medici a segnalare gli irregolari, noi abbiamo indossato le magliette con la scritta “Io non ti denuncio” in 5 lingue, arabo compreso. Intanto avevamo già scoperto che anche molti italiani venivano da noi».
Chi?
«Persone normali come potrebbe essere mia zia, che non riescono a districarsi nel Servizio sanitario nazionale, non hanno i soldi per i ticket, sono entrate in quell’area sempre più ampia di emarginazione che taglia fuori dalla società».
Di quante persone stiamo parlando?
«Di 9 milioni di italiani secondo il Censis, soprattutto anziani, che non possono più curarsi come dovrebbero. E il problema non è solo economico».
Cioè?
«A un anziano che ha difficoltà a spostarsi non basta cavargli il sangue a pagamento. Qualcuno deve accompagnarlo al poliambulatorio, aiutarlo. Il sistema sanitario “ti aspetta”, ti chiede il ticket e non sempre garantisce qualità».
Alternative?
«Noi proponiamo un modello completamente gratuito, di alta professionalità e che “ti viene a cercare”. Lo facciamo con i Polibus, gli ambulatori mobili, e con molte strutture “fisse”, da Marghera a Siracusa, da Sassari alla Puglia. Tra poco ne inauguriamo due nuove in Campania, a Castel Volturno e a Ponticelli».
Altre iniziative in programma?
«Aprire un centro di chirurgia pediatrica d’eccellenza in Uganda, e uno di maternità e chirurgia d’emergenza in Somalia, anche se qui è più dura».
Per la condizione di «guerra permanente»?
«Sì. Mogadiscio, con 3 milioni di abitanti, non ha un ospedale da 15 anni. Che cosa succederebbe se un giorno ci svegliassimo a Milano, o a Roma, senza che in tutta la città ci sia più un ospedale? Noi vogliamo aprirne almeno uno in Somalia, ma ci sono ancora troppi problemi di sicurezza».
Restando in tema di sicurezza, lei ha mai avuto paura?
«Certo, mi son trovato spesso in situazioni di merda, soprattutto in Afghanistan. Quelle in cui sei lì in mezzo, come un pirla, mentre sparano da tutte le parti. Magari senti pure crollare pezzi di tetto e vedi volare le pallottole anche in sala operatoria. Be’, in quei casi ti preoccupi un po’».
In Afghanistan voi c’eravate prima dell’11 settembre, con parecchi problemi, quando pochi parlavano dei talebani.
«Nel 2000 abbiamo tenuto chiuso per molti mesi l’ospedale di Kabul. Poi anche i talebani hanno capito che noi curiamo tutti, seppure con le nostre idee: nei nostri centri non si fanno discriminazioni, non si fa politica, non si portano armi. L’hanno accettato».
Com’è la situazione ora?
«I nostri sono gli unici tre ospedali gratuiti e di alta professionalità. Sarebbe suicida mandarci via, scomparirebbe quel poco di sanità che c’è in un Paese di 28 milioni di abitanti. Oggi possiamo lavorare tranquillamente anche in aree sotto il controllo dei talebani, con personale composto per il 40% da donne. Nella pratica promuovere i diritti umani con la medicina è anche questo. Resta un dato curioso».
Quale?
«Prima dell’11 settembre le ong presenti a Kabul si contavano sulle dita di una mano, dopo erano oltre 2.500. Nelle guerre moderne arruolare gli aiuti umanitari è diventato fondamentale. Per questo nel 2001 abbiamo rifiutato gli aiuti del governo italiano: li accettiamo da quasi tutti, non da chi partecipa alla guerra. Non facciamo la cosmesi ai bombardamenti, né garantiamo facciate di buonismo. Non capisco le polemiche su questo, allora come oggi».
Lasciando le polemiche al posto loro, ma restando in politica: che cosa farebbe se fosse ministro della Sanità? Come cambierebbe quel Servizio sanitario che critica?
«Farei il ministro della Sanità pubblica, gratuita e per tutti. Come? Basterebbe risparmiare il 30% dei 110 miliardi di euro di spesa annua e reinvestirli in salute dei cittadini. Parlo di quel 30% che finisce in “profitto”. Non solo corruzione ma anche soldi alle cliniche private, con il meccanismo del rimborso “a prestazione”: più intervieni e operi, più guadagni. Secondo me è una follia. Forse è anche per questo che non sarò mai ministro della Sanità».
E se la candidassero al Nobel?
«A quello per la pace?».
Sì.
«Visto che di recente lo danno ai più grossi guerrafondai, da Obama all’Ue, mi potrebbero dare il Nobel per la guerra».
Che lei vuole abolire.
«E questo non è uno scherzo, un’idea nuova o un’utopia. Serve un mantra positivo per far diventare la guerra inaccettabile per l’essere umano, per la sua ragione, per la sua moralità, come è successo con l’abolizione della schiavitù. Da chirurgo d’emergenza: la profilassi migliore è bandire tutte le armi».
Opera ancora?
«Toglietemi anche quello…».
Ultimo intervento?
«Due settimane fa, al Centro Salam di Khartum in Sudan, il Centro di cardiologia di eccellenza aperto nel 2007 che ormai è un punto di riferimento per l’Africa: 5 mila operazioni, 100 mila pazienti visitati, soprattutto bambini o ragazzi, provenienti da 27 Paesi. Le racconto di Abdul Aziz e Josef, che ho operato di recente, forse aiuta a capire».
Prego.
«Abdul Aziz è un pazzo scatenato di 3 anni, simpaticissimo. Faceva un casino allucinante. Ci siamo detti scherzando: operiamolo subito o ci distrugge il reparto».
Che cosa aveva?
«Un classico per il continente e per le zone povere: un difetto della valvola mitrale provocato da febbri reumatiche, che senza cure arrivano ai danni cardiaci. Siamo riusciti a riparare la valvola, Abdul Aziz sta benone».
Senza il Centro Salam che fine avrebbe fatto?
«Sarebbe già morto. Il 50% delle operazioni sono in urgenza, su malati con aspettativa di vita sotto la settimana».
E Josef?
«È un ragazzo di 16 anni, con una storia incredibile. È arrivato dal Ciad, confinante e ancora formalmente in guerra col Sudan. Un amico l’ha portato in macchina a sud, fino al Darfur, ora indipendente. Da lì ha preso un aereo per Khartum, dichiarando per scritto che non avrebbe “disturbato gli altri passeggeri”».
L’avete operato subito?
«In pronto soccorso ha avuto un arresto cardiaco. Il tempo di portarlo in rianimazione, secondo arresto cardiaco e coma. C’erano segni di attività cerebrale. La nostra filosofia è dare a tutti una “seconda chance”. Con il mio collega ci siamo detti: dobbiamo darla per forza anche a lui, che con questo viaggio da film ha messo tanto impegno per sopravvivere, anche se le probabilità di farcela sono davvero basse. Aveva le valvole mitrale e aortica distrutte».
Com’è andata l’operazione?
«Bene. Mi ricordo la soddisfazione quando l’ho visto passeggiare nei giardini dell’ospedale. Mi ha salutato: tornava in Ciad».
E ora?
«Continuiamo a seguirlo, gli procuriamo i farmaci e dove controllarsi. Se avrà bisogno, tornerà al Salam. Tutto gratuitamente. Perché è così che deve essere, perché così è normale. Basta non girare la testa dall’altra parte».