Alessandro Penna, Oggi 7/5/2014, 7 maggio 2014
AMANDA KNOX: «I FATTI MI ASSOLVONO»
Seattle (Stati Uniti), maggio
Mi scusi se l’ho fatta aspettare. Il verdetto mi ha veramente travolta e ci è voluto tanto tempo per riprendere coraggio e perspettiva. E per leggere le motivazioni».
La “perspettiva” di cui parla Amanda Knox è piuttosto brutale: 28 anni e 6 mesi di carcere, la pena inflittale dalla Corte d’Assise d’Appello di Firenze. Le motivazioni sono un “romanzone”: 337 pagine che riscrivono, per l’ennesima volta, la storia del delitto di Perugia (una riscrittura piena di errori clamorosi: li abbiamo raccolti a pag. 38 in un box, ma ci sarebbe voluto un... garage). In mezzo c’è il ricorso per Cassazione, una vita che è libera solo di nome, la speranza che «venga ribadita l’innocenza mia e di Raffaele» o che, in caso di condanna definitiva, gli Stati Uniti non concedano l’estradizione.
È un processo, quello carambolato tra Perugia e Firenze, che, tra i mille effetti collaterali, ha pure infilato un nuovo verbo nei dizionari americani: to amandaknox (traduzione orrida, ma letterale: “amandanoxare”), usato per la prima volta da Lena Dunham, l’attrice-regista-sceneggiatrice che ha creato la serie Girls. Significa sparire, essere rapita da una giustizia che, anziché proteggere i cittadini, colpisce alla cieca e non consente difese (la Dunham ha brevettato il neologismo per descrivere la propria disavventura all’aeroporto di Los Angeles, dove venne “sequestrata”, portata in uno stanzino e interrogata rudemente dalla polizia aeroportuale per via di un innocuo portachiavi che aveva fatto suonare il metal detector).
Sono arrivate le motivazioni. E c’è un nuovo movente: non più un’orgia finita male, non più un litigio per i cattivi odori di Guede, ma la volontà, in lei e Raffaele, di «umiliazione e prevaricazione nei confronti di Meredith Kercher».
«È assurdo. Io e Mez eravamo amiche e non abbiamo mai litigato. Io e Raf siamo incensurati, non dei mostri che ucciderebbero una ragazza. È una ricostruzione fantasiosa, non basata sui fatti».
Anche la meccanica dell’omicidio è cambiata: i giudici sostengono che la vittima sia stata accoltellata solo da lei, Amanda, e da Raffaele. Rudy, in pratica, non avrebbe nemmeno colpito Meredith.
«Si rende conto di quanto sia lontana dalla realtà, questa tesi? Sulla scena del crimine, la stanza in cui Mez è stata aggredita e uccisa, sono state rilevate tante tracce di Meredith e di Guede. Non c’è una sola traccia mia o di Raffaele (a parte quella, giudicata inaffidabile dai periti di secondo grado, sul gancetto di Meredith, ndr). Il buon senso, la logica dicono che è impossibile partecipare a un’aggressione violenta, pulire le tracce di due degli aggressori e lasciare solo quelle del terzo. La scena del crimine esclude la nostra presenza. Non basta, secondo lei, questo, a provare la nostra innocenza?».
E l’arma del delitto?
«Non è il coltello trovato nella cucina di Raffaele: le analisi dei periti d’ufficio, che erano imparziali, hanno dimostrato che sulla lama non c’era né il Dna né il sangue di Meredith. Aggiunga che il coltello non corrisponde alla ferite inferte a Meredith. In più, io e Raffaele non eravamo in contatto con Guede: Raf, addirittura, neppure lo conosceva».
Restano le sue confessioni, i suoi memoriali.
«Che sono il frutto di un interrogatorio coercitivo durante il quale non avevo assistenza legale. Peraltro: le dichiarazioni false che ho rilasciato, e ritrattato poco dopo, dimostrano che non conoscevo la vera dinamica del crimine (Amanda aveva, su pressione degli inquirenti, accusato dell’omicidio Patrick Lumumba, poi risultato estraneo al delitto, ndr)».
Il presidente della Corte che l’ha condannata, Alessandro Nencini, ha detto che è stato un delitto casuale. Che se lei fosse andata a lavorare al pub di Lumumba, quella sera, Meredith sarebbe ancora viva. Che ne pensa?
«Penso che chi mi ha accusato e condannato sia partito dalla presunzione di colpevolezza e ora deve sostenerla con delle speculazioni contorte, vaghe e infondate. Non sono mai stata una persona violenta. Non portavo in giro un coltello, quella sera. Sono le speculazioni che mi condannano. I fatti mi assolvono».
È libera, ma si porta addosso una condanna che potrebbe diventare definitiva: come si vive, in queste condizioni?
«Cercando di riprendere una vita normale. Frequento le mie lezioni, faccio i miei compiti, esco a fare due passi a piedi o con la bicicletta, e nel tempo libero di solito sto a casa con il mio ragazzo James e con i miei gatti. Nel fine settimana visito la mia famiglia».
È vero che sta per laurearsi?
«Sì. Il 23 di luglio sarà il mio ultimo giorno di lezioni, poi presenterò la tesi. La mia facoltà è scrittura creativa, la mia tesi consiste in un romanzo».
Riesce a fare progetti di lungo termine?
«E come potrei? Mi sento più che mai in un limbo. Da una parte continuo a studiare, a sognare di costruirmi una famiglia e una professione, e dall’altra non posso smettere di lottare contro questo errore giudiziario. Non mi sentirò mai normale né libera né al sicuro finché la mia innocenza e quella di Raffaele non verranno riconosciute».
Lo sente, Raffaele?
«Sì, anche se meno spesso di prima. Stiamo provando ad andare avanti con le nostre vite. Saremo sempre amici, è sempre nei miei pensieri: spero tanto che gli italiani non lo abbandonino a una fine profondamente ingiusta. Lui è stato trattato dall’Accusa come se non fosse una persona, come se non avesse una personalità, come se fosse il mio schiavo. Assurdo».
Crede che se Raffaele l’avesse “scaricata”, se avesse detto che lui non era con lei quella notte, ora sarebbe libero?
«Sì. Sono convinta che l’accusa si sia concentrata su di me e che Raffaele è stato perseguito, ma forse dovrei dire “perseguitato”, solo perché sostiene la mia innocenza».
E ora? Ha paura di venir condannata in via definitiva? Crede che gli Stati Uniti concederanno l’estradizione?
«Convivo con questo doppio incubo: che l’errore giudiziario sarà confermato e l’estradizione concessa. Però, spero ancora che un giudice giusto riconosca la innocenza di Raffaele e quella mia».
Nel caso lei venisse condannata, ma non estradata in Italia, non potrebbe più viaggiare all’estero.
«Gli Stati Uniti diventerebbero la mia prigione: e io sono innocente, non merito di essere incarcerata in nessun modo. Mi peserebbe molto non poter tornare mai più in Italia e non poter visitare la tomba di Mez. Mi peserebbe molto che anche una sola persona al mondo possa considerarmi un’assassina».
Ha qualche rimpianto? Qualcosa che cambierebbe, nei comportamenti che ha tenuto in questi sei anni e mezzo che ci separano dalla morte di Mez?
«Se nel 2007 io avessi avuto la maturità, la “consapevolezza” che ho adesso, avrei collaborato con la Polizia, ma avrei preteso che i miei diritti venissero rispettati. Avrei parlato con un avvocato prima che con i poliziotti. Avrei smesso di rispondere agli investigatori al primo abuso che avessero compiuto. Poi, avrei provato a contattare subito la famiglia di Mez. Ma non mi faccio colpe».
Perché?
«Perché nel 2007 ero molto giovane, vulnerabile, inconsapevole. Ero da sola, ero molto ingenua. Volevo dimostrarmi calma e capace come un’adulta, ma non lo ero. E gli investigatori hanno approfittato della mia innocenza».