Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  maggio 05 Lunedì calendario

TERME E CASINÒ, ENTI LOCALI PIGLIATUTTO


Ci mancava solo il Comune benzinaio. Come ha segnalato il think-tank Italia Aperta, l’inventiva del capitalismo municipale non ha limiti. Infatti, a Verona, l’azienda municipalizzata AGSM, attiva nel campo dell’energia e dell’acqua, dopo essersi cimentata nella costruzione di parchi eolici ora, in joint-venture con un imprenditore locale (scelto senza procedura d’asta), si è lanciata nel commercio dei carburanti: fa il benzinaio insomma, con un socio di maggioranza, il comune, che ha anche il curioso privilegio di regolare l’attività delle pompe concorrenti. Da quando nel 2011 il popolo italiano ha votato lo sciagurato referendum sulle risorse idriche, difatti, il risultato non è stato solo quello di mantenere “sorella acqua” in mani pubbliche ma si sono ostacolate tutte le norme che prevedevano di introdurre concorrenza ed efficienza nella foresta pietrificata delle municipalizzate.
Gran parte della colpa va addebitata al Pd, che per meri calcoli elettoralistici non ebbe il coraggio di difendere riforme che aveva in gran parte sostenuto. Ricordo bene, per averlo sentito con le mie orecchie, Bersani che affermava di essere contrario alla “privatizzazione obbligatoria”, ma che le mirabolanti proposte dei Democratici avrebbero assicurato la competitività e l’efficienza del settore. E ricordo pure che Enrico Letta fu corrivo in quel frangente. Va bene, il passato è passato, anche se ricordarlo non fa mai male. Oggi la situazione è quella tratteggiata nel rapporto del Centro Studi di Confindustria di fine marzo: una melassa informe e variegata che, come il “Blob” della famosa trasmissione televisiva, tende ad espandersi negli ambiti più imprevisti. Gli enti locali partecipano in 7.700 società che hanno 300mila dipendenti e 43 miliardi di euro di fatturato. 28mila sono gli amministratori e i componenti degli organi di controllo (revisori e sindaci): tutte nomine politiche, a volte gestite con avvedutezza molte altre con opacità e scarsa attenzione alla competenza. Certe attività sono balzane a dir poco: dalle terme agli stabilimenti balneari, passando per le compagnie di assicurazione e i casinò (quello di Campione di Italia riesce ad essere in perdita di 40 milioni, un caso da manuale di incompetenza). Le perdite complessive sono di 800milioni l’anno, ma il Centro studi Confindustria ha calcolato che se venissero eliminate tutte le partecipazioni in imprese che non gestiscono servizi pubblici essenziali lo Stato risparmierebbe la bella cifra di 12,8 miliardi. E’ evidente che si debba fare qualcosa e la soluzione di imporre il tetto dei 238mila euro anche ai direttori dei casinò è un’idea populista, che fa risparmiare qualche spicciolo e certamente allontana i manager migliori facendo rimanere quelli che non hanno mercato. La soluzione è invece ovvia da tempo, insistere con le liberalizzazioni e privatizzare in massa. Per le liberalizzazioni, non appena il Presidente dell’Antitrust trova uno spazio libero nella sua gravosa agenda, l’Autorità garante potrebbe dedicare la legge annuale sulla concorrenza (che ha cadenza annuale ma che è stata pubblicata l’ultima volta solo nell’ottobre 2012) alle misure urgenti per la liberalizzazione del settore dei servizi pubblici, compatibilmente con la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la normativa precedente perché in contrasto con il risultato referendario del 2011. Per le privatizzazioni si potrebbe trarre spunto da un paper di Alberto Saravalle, pubblicato in aprile dall’Istituto Bruno Leoni, nel quale si suggerisce l’adozione di un sistema di carota (che in parte c’è) e bastone (ora assente), ricalcando proceduralmente le orme seguite dalla Germania quando si trovò a dover vendere l’enorme massa di aziende statali della Ddr. Il bastone dovrebbe essere usato sia sul piano della trasparenza, imponendo multe salate alle imprese pubbliche e agli enti locali che non presentino rendiconti finanziari impostati secondo i principi contabili internazionali (con conseguente responsabilità erariale per i dirigenti negligenti, aggiungo io), modificando l’attuale normativa contenuta nel D.lgs 118/2011. Sostanzialmente, i comuni che hanno un patrimonio in società non strumentali (che conseguono un fatturato superiore al 90% con amministrazioni pubbliche) dovrebbero invece subire una decurtazione dei trasferimenti dallo Stato fino a privatizzazione avvenuta. Come? Per evitare pasticci e ritardi, conferendo tutte le partecipazioni in un grande fondo simile appunto alla Treuhandstalt tedesca che si occupò di 8.500 società della vecchia Germania Est. L’idea andrebbe anche corredata, a mio parere, dall’obbligo di indire una gara internazionale per la gestione del fondo, affidato in modo paritario a banche d’affari internazionali e italiane, remunerate in percentuale rispetto a quanti proventi riescono a ottenere in più rispetto al patrimonio netto contabile. Un programma ambizioso e drastico, certo. Finora i piccoli passi hanno dimostrato però di non funzionare e nel momento in cui si chiedono sacrifici a pensionati, sanità, forze armate, dipendenti delle amministrazioni centrali, la protezione di un recinto che genera perdite ma è sacro grazie al potere di sindaci e presidenti di Regione risulterebbe ingiusto e intollerabile.

Alessandro De Nicola, la Repubblica – Affari & Finanza 5/5/2014