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 2014  maggio 05 Lunedì calendario

AUSTERITÀ, CORAGGIO E FONDI DELLA TROIKA IL MIX VIRTUOSO CHE HA SALVATO LA “PERIFERIA”

E se l’austerità funzionasse? Molti indizi in serie in teoria dovrebbero equivalere a una prova. E negli ultimi mesi l’Europa del Sud ne ha prodotti abbastanza per spiazzare due categorie di osservatori secondo i quali questa crisi avrebbe già dovuto distruggere l’euro: quelli ai quali nessuna risposta basta mai, e i critici di quel tipo di politiche dettate dalla Germania che vanno sotto il titolo, appunto, di «austerità». La novità di questi mesi è che i Paesi che hanno sperimentato la cura tedesca - quella vera, non il surrogato fatto di aumenti delle tasse - stanno dando segnali di trasformazione. Spagna, Portogallo, Irlanda e in parte persino la Grecia, sembrano diversi e più capaci di camminare sulle proprie gambe rispetto anche solo a 10 mesi fa. E dire che venivano chiamati i Pigs, un arrogante acronimo coniato nella City londinese giocando con i loro nomi (e con quello dell’Italia). Oggi invece il governo di Londra blandisce gli elettori continuando a garantire il 20% di tutti i nuovi mutui delle famiglie, una scelta che lo rende potenzialmente insolvente al prossimo crash immobiliare. Intanto la parola Pigs è sparita dal lessico: cancellata dai segni di ripresa, che in quasi tutta la cosiddetta «periferia » europea sono più netti che in Italia. In certi casi sorprende la rapidità del cambio di stagione, come se le riforme avessero avuti i loro effetti anche prima di quanto molti si aspettassero. Su richiesta dei creditori di Bruxelles e del Fondo monetario internazionale, il Portogallo per esempio ha introdotto più di 400 misure per aumentare la produttività o liberare le imprese dagli oneri ammini-strativi, aprire a nuovi operatori i settori protetti dell’elettricità, delle telecomunicazioni o del settore farmaceutico. La giustizia civile è stata resa più rapida. Altri interventi hanno toccato dolorosamente la struttura sociale portoghese: i licenziamenti sono stati resi meno onerosi, mentre i negoziati contrattuali vengono spostati sempre di più dal livello centralizzato a quello di ogni singola azienda per permettere a chi produce di adattarsi alle condizioni della domanda e della concorrenza. Anche la Spagna si è mossa in fretta. Una giustizia civile resa più veloce ha aiutato le banche a liberarsi più in fretta delle vecchie posizioni andate a male e riprendere un po’ di credito. La stessa bad bank (che in Italia non si è fatta) ha contribuito a voltare pagina dai problemi del passato. E sempre su richiesta dei governi europei che nel 2011 gli hanno prestato 40 miliardi per salvare le banche, il governo ha anche cambiato le regole del lavoro. I costi dei licenziamenti sono stati alleggeriti, rendendo le imprese meno riluttanti a offrire contratti a tempo indeterminato ai nuovi arrivati. Ma soprattutto, come in Portogallo, sono scattate clausole che permettono di optare per il negoziato sulle condizioni di lavoro a livello d’impresa: ciò ha attratto forti investimenti produttivi esteri, da Renault, dalla tedesca Bayer, a gruppi industriali statunitensi e dell’America Latina. Italia e Francia sono rimasti i soli due Paesi europei, nei quali gran parte dei contratti si discute a livello nazionale dai sindacati e dalla organizzazioni centrali dei lavoratori. Sono anche i soli nei quali la disoccupazione non è ancora scesa. Intanto, la svolta nel resto dell’Europa colpita dalla crisi è evidente quanto rapida. Ancora nell’autunno del 2012 la Spagna sembrava pronta a chiedere un aiuto anche per sostenere il suo bilancio. Venerdì scorso invece i rendimenti dei titoli di Stato di Madrid a dieci anni erano scesi sotto al 3%, livelli sfiorati di recente dai buoni del Tesoro americano. Nel primo trimestre la crescita iberica è arrivata addirittura all’1,6% in ritmo annuale, un balzo che sta inducendo gli analisti a rivedere al rialzo per la seconda volta in pochi mesi le stime del Pil per il 2014. Solo poche settimane fa il Fondo monetario vedeva una crescita dello 0,9% sul 2014, ma ora potrebbe arrivare a 1,2%. Nel frattempo anche la disoccupazione ha iniziato a scendere: oggi nel Regno ci sono circa 250 mila disoccupati ufficiali in meno rispetto a un anno fa. Tendenze simili si notano in Irlanda o in Portogallo, appena emersi o ancora in uscita dai piani di salvataggio dell’Unione europea e del Fondo monetario internazionale. I titoli decennali di Dublino rendono appena il 2,83%, appena lo 0,24% più di quelli di Washington, malgrado un debito salito in fretta al 120%. E il governo di Lisbona paga meno del 4% mentre ancora si trova nel programma di salvataggio europeo: malgrado un rating a livello «spazzatura», è un premio di rischio più basso di quello degli equivalenti titoli in «tripla A» (massimo dei voti) emessi dal governo australiano. Anche qui, il miglioramento non è solo finanziario. I dati dell’attività delle imprese o sul lavoro segnalano che qualcosa sta cambiando in profondità in economie che solo nel 2011 sembravano incapaci di vivere nell’euro se non sotto una tenda a ossigeno. Dall’aeroporto Portela di Lisbona per anni sono partiti circa duecento portoghesi adulti ogni giorno a cercare fortuna nel mondo, ma ora il Paese ha ricominciato a creare posti. I disoccupati sono oltre 120 mila meno di un anno fa, un crollo dal 17,5% al 15,3%. Le esportazioni salgono del 5% l’anno. E al Nord il distretto delle calzature ha messo a segno un aumento dell’export del 9% nel 2013 grazie alla scelta della qua-lità, senza più puntare solo sui bassi costi. Nell’ultimo anno i produttori portoghesi hanno iniziato a competere sempre direttamente con l’Italia nei segmenti dell’alto di gamma, con colpi di marketing come le scarpe su misura per star globali come David Beckham o Madonna. E anche in Irlanda la disoccupazione è scesa ormai di quasi due punti, mentre in Italia resta ancora ai massimi da quando viene misurata. Non tutti questi indizi di ripresa sono privi di ambiguità. Un’occhiata a ciò che avviene in Germania rivela per esempio un’immagine rovesciata, l’altra faccia della medaglia rispetto a quando accade nella «periferia» dell’euro. In teoria la correzione degli squilibri in Europa comporta aumenti dei costi del lavoro e un’erosione della competitività in Germania, mentre i Paesi in uscita dalla recessione riducono i loro costi e diventano più competitivi. Se questo accadesse, la moneta unica potrebbe funzionare meglio per tutti. Il paradosso però è che dopo un accenno di convergenza, nell’ultimo trimestre del 2013 la dinamica dei compensi ai lavoratori in Germania è di nuovo tornata a frenare (circa 1,5% su base annua). Cos’è successo? Probabilmente che la zona euro durante la crisi è diventata un po’ più simile agli Stati Uniti. In America i lavoratori che perdono il posto per una recessione nello Stato in cui risiedono, si spostano facilmente verso un altro Stato in pieno boom. In Europa in questi anni ha iniziato larvatamente ad accadere qualcosa di simile: secondo Lombard Street Research, in Germania alla fine del 2013 quasi la metà dei nuovi assunti veniva dall’estero, cioè in gran parte da Spagna, Italia, Portogallo o Grecia. Sono migranti senza lavoro in fuga dai Paesi d’origine, disposti a lavorare a meno di quanto chiedono i tedeschi per le stesse mansioni. Sono loro a congelare parte delle dinamiche del costo del lavoro in Germania e dunque il riequilibrio europeo. In sostanza, Spagna, Grecia o Italia, ancora sommerse dalla disoccupazione, esportano deflazione verso il «nucleo duro» d’Europa; e la Germania a sua volta la riesporta verso la periferia sotto forma di beni prodotti a costi più bassi. Il riequilibrio non funzionerà finché questa spirale non si spezza, con un intervento della Banca centrale europea a sostegno dei prezzi e un aumento dei salari e dei consumi in Germania. Ma lo stesso surplus tedesco verso il resto del mondo, un colossale 6,8% del Pil a 278 miliardi di euro (più che triplo di quello della Cina, rispetto alla taglia dell’economia) rivela quanto resti da fare per un’area euro più equilibrata. Di questo passo la correzione del Sud sarà socialmente dolorosa per decenni, perché la Germania continuerà ad esportare deflazione. C’è poi anche un’incognita di natura finanziaria: il crollo dei tassi d’interesse nei Paesi indebitati non sembra definitivo. Le banche francesi o tedesche sono tornate a esporsi in Spagna o in Grecia a livelli che valgono circa il 60% delle posizioni da loro detenute pre-crisi. La caduta degli spread si spiega però soprattutto con l’afflusso verso il Sud Europa di fondi in uscita dai Paesi emergenti. Non si tratta di investimenti stabili, ma in gran parte di denaro generato negli Stati Uniti e sulla via del ritorno verso gli Stati Uniti dopo varie tappe in cerca di rendimenti all’estero. Con l’aumento dei tassi previsto nel 2015, la Federal Reserve suonerà la fine della ricreazione. Si vedrà solo allora come gestire montagne di debito che, da Lisbona ad Atene, nel frattempo non hanno mai smesso di aumentare. Il premier greco Antonis Samaras con Angela Merkel all’ultimo vertice europeo: il primo ministro di Atene ha riconosciuto alla cancelliera di non aver permesso che la Grecia uscisse dall’euro.