Tonia Mastrobuoni, La Stampa 7/5/2014, 7 maggio 2014
2 MILA MILIARDI SPESI BENE
Duemila miliardi di euro. E’ la montagna di debito pubblico che l’Italia ha accumulato negli ultimi quattro decenni. Ma è anche la cifra spesa dalla Germania nell’ultimo quarto di secolo per assorbire la sua parte comunista in bancarotta, la Ddr.
Il risultato è un po’ diverso, banale dirlo. Ma l’analogia numerica tra Italia e Germania consente un piccolo bilancio della riunificazione e una riflessione su una apparente follia economica che si è rivelata poi un’operazione di puro genio politico. Anche se le due metà del Paese non sono ancora appaiate, difficile che qualcuno si metta ancora a ridere, pensando alla famosa frase di Helmut Kohl che suscitò tanta ilarità all’epoca. I «paesaggi in fiore», all’Est dell’Elba, finalmente si vedono.
Tra la caduta del Muro di Berlino e i primi anni della riunificazione tedesca, il cancelliere cristiano-democratico prese una serie di decisioni - anche con l’appoggio di un lungimirante ministro degli Interni di nome Wolfgang Schäuble - che fecero inorridire gli economisti di mezzo mondo e causarono le dimissioni del presidente della Bundesbank. Ma Kohl tirò avanti. Sin dallo storico giorno di fine novembre del 1989 in cui propose al Bundestag un piano che mirava a una Germania unita e federale a pochi giorni dal crollo del Muro, spaventando tutti, da Washington a Mosca, Kohl portò avanti le sue decisioni con una fretta furiosa. Ma limitò enormemente i danni politici che qualsiasi altra decisione avrebbe potuto provocare.
La prima follia, la più famosa, fu la parità tra il marco dell’Ovest - la moneta più stabile del mondo e allo stesso tempo l’unico simbolo di potere che i tedeschi si erano concessi dopo l’Olocausto - e quello dell’Est, all’epoca carta straccia. L’insurrezione contro quella costosissima decisione si scatenò nell’istituzione più sacra per i tedeschi, la banca centrale, e il presidente Karl Otto Pöhl lasciò. Ma come aveva capito Schäuble già nei primi mesi dell’inverno dell’89, quando migliaia di tedeschi continuavano a emigrare a Ovest, i cittadini della Ddr non avrebbero accettato altro. Lo dicevano anche gli slogan gridati in piazza, «uno a uno o non saremo mai uno». La gente stava votando «con i piedi», stava minacciando di dissanguare un Paese già sfinito da mezzo secolo di malagestione, di svuotarlo.
Per la stessa ragione fu saggia un’altra apparente follia: aumentare vertiginosamente gli stipendi e le pensioni dei tedeschi dell’Est, che misuravano una produttività che raggiungeva a malapena un terzo di quella dei cugini occidentali. Nel 1990 gli stipendi furono gonfiati del 20%, nei quindici mesi successivi di un altro 50%. Gli economisti si misero le mani nei capelli, la popolarità di Kohl e l’entusiasmo per la riunificazione toccarono vette irraggiungibili.
Solo una terza, importante decisione si rivelò disastrosa, ma perché condotta invece con un impulso ideologico, ultra liberista: quella di privatizzare tutto. L’anticomunismo accecò evidentemente chi doveva gestire la Treuhand, il contenitore in cui confluirono le 7.894 imprese tedesche che impiegavano quattro milioni di lavoratori, il 40% della forza lavoro della Ddr. Non tutto era da buttare, quasi tutto fu invece spezzettato, liquidato e distrutto, provocando tassi di disoccupazione mostruosi. Quello fu un chiaro disastro politico provocato da un furore economico che provocò nella parte orientale del Paese l’idea di un’«annessione», di un gesto ostile, colonizzatore.
Infine, dei duemila miliardi investiti da allora nella ex Germania Est secondo i calcoli di Klaus Schröder, economista della Freie Universität di Berlino citato dalla «Welt am Sonntag», il 60-65% sono spese sociali e la parte da leone la fanno le pensioni. Si tratta di finanziamenti europei, federali e dei singoli Länder, di soldi della famosa «tassa di solidarietà» pagata dall’Ovest. Ma in quei mesi straordinari tra il crollo del regime di Honecker e la riunificazione delle due Germanie, Kohl negoziò anche un altro obiettivo storico. In cambio dell’unità, concesse a Mitterrand un’accelerazione sull’integrazione europea e, soprattutto, sulla moneta unica. E compì un altro miracolo: far digerire ai tedeschi la rinuncia al loro amato marco.
Per fare un paragone triste, raccontato in uno straordinario libro appena uscito in Germania, scritto da Cerstin Gammellin e Raimund Löw, «Europas Strippenzieher» («I burattinai d’Europa», Ullstein) che racconta la Grande crisi attraverso i retroscena minuziosi e in parte inediti dei Consigli europei, quando la Merkel chiese ai suoi se era il caso di salvare la Grecia, si fece elencare le possibili conseguenze. Ovviamente nessun economista poteva risponderle con certezza. Così, lei salvò la Grecia senza un briciolo di visione, soltanto per il suo proverbiale pragmatismo da scienziata: concluse che non avrebbe fatto qualcosa di cui non conosceva le conseguenze. Kohl, in questo, era un autentico campione.
Tonia Mastrobuoni, La Stampa 7/5/2014