Benedetta Tobagi, la Repubblica 7/5/2014, 7 maggio 2014
LA SOTTILE LINEA ROSSA TRA LA PACE E LA GIUSTIZIA
Gerry Adams, il leader del Sinn Fein arrestato perché sospettato di essere il mandante dell’omicidio di Jean Mc Conville, vedova e madre di dieci figli, uccisa nel 1972 dall’Ira, l’esercito clandestino repubblicano, perché considerata erroneamente un’informatrice della polizia, è stato rilasciato. Per ora, la pubblica accusa ha ritenuto non vi fossero prove sufficienti per trattenerlo. La vicenda ha scoperchiato un vaso di Pandora: molti temono che un’eventuale incriminazione di Adams incrini la stabilità della pacificazione avviata con gli accordi del Good Friday del 1998 e conclusa nel 2010, di cui è stato protagonista attivo.
Si ripropone un dilemma tragico che varca i confini dell’Irlanda del Nord: «Quando è applicata rigorosamente la giustizia, non c’è pace, e dove c’è la pace la giustizia non è applicata rigorosamente », dice il Talmud. Lo spirito di pace, chiosa il filosofo israeliano Avishai Margalit, coincide con quello del compromesso, che non è sempre compatibile con l’esercizio della legge. Ma dove si colloca il punto di equilibrio tra le due istanze, in presenza di conflitti etnici o politici laceranti che hanno lasciato sul terreno centinaia di morti da ambo le parti?
Una prima considerazione: la “civilizzazione del conflitto”, ossia il processo che fa subentrare la politica e il confronto civile alla violenza (si tratti di guerra, guerriglia, atti di terrorismo, assassini), per quanto efficace (quello avvenuto tra Regno Unito e Irlanda del Nord è un modello per la gestione del conflitto basco), non comporta una civilizzazione dei toni del confronto politico. Offre piuttosto nuove e più terribili armi alle polemiche. Adams ha lamentato la strumentalità dell’arresto nell’imminenza delle elezioni: brandire il passato come un maglio da abbattere sull’avversario politico è una (pessima) abitudine molto diffusa, in effetti. Nel 1996, in Spagna, lo “scandalo Gal”, ossia il sospetto che alcuni leader socialisti fossero stati collusi con i “Gruppi di liberazione antiterroristica” che conducevano la “guerra sporca” dello Stato contro l’Eta, contribuì alla loro sconfitta alle elezioni. Venendo alle piccole faccende di casa nostra, nel 2011 il sindaco di Milano uscente Letizia Moratti cercò di screditare il competitor Giuliano Pisapia rinfacciandogli il coinvolgimento in un’inchiesta penale risalente agli anni Settanta, mentre la stampa di destra bollava taluni suoi sostenitori come “amici dei terroristi”. La pacificazione materiale è il primo passo, fondamentale, ma non risana le ferite della società quando, come in Ulster, migliaia di sopravvissuti attendono ancora verità e giustizia su troppi delitti. Nel settembre 2013, un rapporto di Amnesty International ha esaminato le attività degli organismi impegnati a indagare su violenze e violazioni dei diritti umani commesse da attori statali e da gruppi armati in Irlanda del Nord durante tre decenni, concludendo che i meccanismi esistenti erano intrinsecamente carenti e troppo spesso non erano riusciti a ristabilire la verità e la giustizia per le vittime e per le loro famiglie, da ambo le parti. E pochi giorni fa l’ex segretario di Stato per l’Irlanda del Nord Shaun Woodward ha rilanciato sul Guardian: «Abbiamo un’opportunità unica di definire nei dettagli un meccanismo per affrontare le questioni ancora irrisolte», che veda il coinvolgimento delle comunità delle vittime, evocando il Sudafrica della “Commissione verità e riconciliazione”.
Bisogna dunque mettere da parte la giustizia penale? La via dell’amnistia sui delitti del franchismo con cui la Spagna uscì da quarant’anni di dittatura è difficilmente esportabile, come pure il luminoso esempio sudafricano, laddove non ci sia stata una “transizione” effettiva, cioè un vero e proprio mutamento del regime di governo. In questi casi, sospendere la giustizia ordinaria non è raccomandabile. Esemplare, in questo senso, la condotta di Adams, che si è comunque messo a disposizione degli inquirenti e non ha messo in discussione l’autorità delle forze di polizia. Anziché limitarsi a enfatizzare il meccanismo “verità in cambio di impunità”, però, dal modello sudafricano si può trarre ispirazione per impostare percorsi di “giustizia riparativa”, che coinvolgono la società intera e non escludono, ma integrano la via dell’accertamento giudiziario. Prevedono forme di ascolto e assistenza per le vittime, momenti di incontro e di confronto, pubblico riconoscimento di colpe e responsabilità politiche. Dato l’elevato tasso emotivo della materia, esempi e gesti simbolici di riconciliazione (in Israele alcune madri di vittime sui fronti opposti sono arrivate a praticare trasfusioni di sangue tra loro) hanno un potenziale straordinario nel catalizzare l’evoluzione del sentire. Nemmeno la via delle commissioni d’inchiesta va abbandonata: a seguito del rapporto Saville sul “Bloody Sunday” a Derry, il 30 gennaio 1972 (14 manifestanti disarmati uccisi dai parà britannici), il premier Cameron ha chiesto formalmente scusa a nome del governo britannico. Un gesto dirompente: in Italia nessuno ha mai pensato di scusarsi per la morte di Pinelli o i depistaggi sulle stragi.
Certo, i gesti simbolici, le commissioni e le inchieste per accertare la verità dei fatti non possono sostituire il “processo di civilizzazione” di un’intera società, lavoro di anni o più spesso decenni. Ma creare luoghi che favoriscano l’elaborazione di nuove narrazioni collettive è premessa necessaria per un rasserenamento della tensione sociale. In questo senso, la cultura può svolgere un ruolo fondamentale. La Spagna insegna: se la ben riuscita transizione dalla dittatura franchista alla democrazia si è basata su un prudente (e assai contestato) pacto del olvido, negli ultimi anni si è riacceso un dibattito molto vivace grazie alla letteratura. «Ora, a un quarto di secolo dalla Costituzione, si deve parlare», ha detto lo scrittore Javier Cercas. I suoi bellissimi romanzi non fiction Soldati di Salamina (sull’eredità della guerra civile) e Anatomia di un istante ( sul tentato golpe Tejero dell’81) hanno venduto centinaia di migliaia di copie scatenando discussioni vivacissime: segni di salute, curiosità, vitalità. Non si tratta di conciliare memorie inconciliabili: non sarebbe sano né auspicabile . Ricette precostituite per i “compromessi decenti”, come li chiama Margalit, non ce ne sono. E nemmeno equilibri permanenti. Piuttosto, le società ferite devono fabbricare un tavolo (fatto di leggi, principi di convivenza, regole, valori, condivisione di una base di fatti accertati, riconoscimento reciproco) abbastanza ampio da consentire a tutti quanti di sedersi, senza tentare né desiderare di farlo saltare. Un tavolo dove i commensali parlano magari ad alta voce, ma senza insultarsi, anche quando siedono su lati opposti.
Benedetta Tobagi, la Repubblica 7/5/2014