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 2014  maggio 07 Mercoledì calendario

“QUELLE MAGLIETTE OLTRAGGIO A MIO PADRE NON CE LA FACCIO PIÙ VADO VIA DALL’ITALIA”

[Intervista a Fabiana Raciti] –

CATANIA
«Spero solamente che la tua morte spinga la società a cambiare, perché tu sei un eroe». Di Fabiana Raciti tanti ricordano queste parole commosse dedicate al papà Filippo nel Duomo di Catania sette anni fa, il giorno dei funerali dell’ispettore ucciso durante gli scontri del derby Catania-Palermo. Allora Fabiana aveva 15 anni e voleva smettere di mangiare, di bere. Ma è andata avanti. Oggi tutto ricomincia. L’oltraggio e il dolore. Piange ripensando a quella maglietta con la scritta “Speziale libero”: «Sono indignata, sotto shock. Voglio andar via dall’Italia. Ho sopportato troppo in questo Paese».
Fabiana, che cosa ha pensato dell’Italia in questi giorni?
«Da figlia è terribile leggere su una maglietta il nome di chi ha ucciso tuo padre. Me lo hanno tolto quando avevo appena quindici anni. Le magliette sono l’ultimo sfregio: uno sfregio a un grande uomo, un grande padre, un grande marito. Questo è uno schiaffo morale alla mia famiglia, quelle magliette vogliono difendere un assassino e offendere chi crede nella giustizia. Non lo posso tollerare, ho pianto molto in questi giorni, si è riaperta una ferita profonda. Ho pensato anche a questo ragazzo, Ciro, alla sua famiglia, all’ennesima tragedia in nome di una partita. Perché io ho voglia di libertà, desiderio di felicità e soprattutto di sicurezza, ma tutto questo l’Italia non me lo permette più. Qui tutto peggiora di giorno in giorno e non vorrei far crescere i miei figli in un ambiente del genere: sogno un posto dove le regole vengano rispettate».
Quelle magliette sono un’umiliazione alla memoria di suo padre. Come ha vissuto quel che è successo l’altra sera fuori e dentro l’Olimpico?
«Gli spari prima della finale di Coppa Italia mi hanno fatto pensare ad un altro poliziotto vittima di una partita di calcio. Io non dimentico mio padre, naturalmente, e mai lo dimenticherò ma avevo messo da parte quelle emozioni insopportabili. L’altra sera il dolore è tornato come allora: non riesci a scacciare i fantasmi. Non ho dormito, non ce l’ho fatta. I ricordi sono riaffiorati, tutti in una volta, tutti insieme, fino a farmi disperare. Perché i ricordi, purtroppo, sono tanti. I dolori per la mia famiglia non sono finiti quella sera allo stadio Massimino, ma sono continuati per anni. Abbiamo subito di tutto».
A cosa si riferisce?
«C’è stato, ed evidentemente c’è ancora, un accanimento nei confronti della mia famiglia che non riesco a spiegarmi. Quando papà è morto io andavo al liceo e ho ricevuto intimidazioni tremende: dei ragazzini del gruppo Acab scrissero davanti alla mia classe “Raciti al rogo”. E all’Università di Catania purtroppo non è stato diverso: un gruppo di ultrà mi ha preso a pugni la macchina. Mi sono sentita sola. Noi non siamo certo colpevoli di niente, abbiamo solo subito un dramma che non auguro a nessuno. E siamo stati doppiamente torturati».
Sono passati sette anni dall’omicidio ma sembra che per voi il tempo si sia fermato.
«Sì, è da quella sera del 2 febbraio che continuo a chiedermi “perché?”. Ero davanti alla tv, in cucina: volevo vedere mio padre, sapevo che era lì e speravo che lo inquadrassero, e invece ho scoperto che era morto. Non provavo rabbia, ero incredula e nella testa avevo solo quel disperato “perché”. Si può morire per una partita di calcio? Si può uccidere per una partita di calcio? Io sono cresciuta senza un papà, non vado più allo stadio e vedo mio fratello orfano come me. La mia famiglia è stata distrutta e io sono cresciuta prima del tempo».
Com’è cambiata la vita da quel giorno?
«Non ho più pensato a divertirmi, anche se avevo quindici anni, ma solo a stare vicino a mia madre e a mio fratello, perché avevano bisogno di me. Le feste, i concerti, i momenti di svago con gli amici non avevano più lo stesso significato e la mia infanzia è svanita così nel nulla, per una partita di calcio. Poi il tempo mi ha aiutato, mi ha dato forza e mi ha trasmesso la voglia di cambiare le cose. Ho pensato che era importante dare dei messaggi belli ai più piccoli, che a volte non si rendono conto di quello che fanno. Lo sport dovrebbe trasmettere sentimenti di gioia non di violenza».
Cosa direbbe agli ultrà che vanno in giro con la maglietta “Speziale libero”?
«Non ho niente da dire, davvero. Offendere è sintomo di rabbia e io non provo rabbia ma solo indignazione. Li guarderei in silenzio perché non meritano nemmeno di sentire la mia voce. Penso che lo Stato dovrebbe educare i suoi cittadini come fa un buon padre di famiglia con i propri figli, ma questo non avviene. Lo sport è allegria, valori, passione positiva. Ma spesso le cose non vengono vissute così. Purtroppo i ragazzi trovano nello sport uno sfogo alle proprie frustrazioni, ai propri fallimenti interiori, alla repressione che pensano di subire. Forse succede perché non hanno famiglie veramente forti che li sostengono. Quelle magliette sono una sconfitta anche per gli onesti, dovremmo ribellarci tutti e non soccombere stando in silenzio. L’arma più efficace è la parola, mai la mano violenta».

Giorgia Mosca, la Repubblica 7/5/2014