Maurizio Molinari, La Stampa 6/5/2014, 6 maggio 2014
QUEL MIX FOLLE DI SHARIA E PULIZIA ETNICA
Vendere come schiave centinaia di alunne catturate è solo l’ultima di una lunga serie di gesta efferate che vede Boko Haram protagonista di una campagna di pulizia etnica in Nigeria simile a quella condotta dai Janjaweed nel Darfur sudanese.
Nato nel 2002 come movimento «contro la cultura occidentale» guidato dal fondamentalista islamico Mohammed Yusuf - eliminato nel 2009 - Boko Haram nel 2013 è stato inserito dal Dipartimento di Stato nella lista delle organizzazioni terroriste sulla base di informazioni che attribuiscono al nuovo leader Abubakar Shekau la scelta di operare con Al Qaeda nel Maghreb Islamico, testimoniato da blitz in Camerun e Niger eseguiti assieme a gruppi jihadisti locali. Ma la definizione di terroristi islamici non basta a spiegare la natura di Boko Haram che, nella Nigeria del Nord, si distingue per l’efferatezza delle proprie azioni. Incendi di chiese, stragi nelle scuole, rapimenti di massa, decapitazioni di agenti di polizia e leader musulmani sommano un bilancio di vittime, dal 2002 al 2013, oltre quota 10 mila, molte delle quali eliminate con metodi orrendi come raggruppare alunni in classi date alle fiamme, bersagliare villaggi con frecce avvelenate, gettare motorini-bomba nei mercati e praticare lo stupro di massa per cambiare l’identità di intere regioni.
L’africanista Ali Mazrui, della Cornell University di Ithaca, spiega che «Boko Haram somma due identità, il fondamentalismo islamico e l’etnia Hausa nel Nord della Nigeria» in rivolta contro il governo centrale. Tutti gli Hausa sono musulmani come tutti gli Igbos, nell’Est, sono cristiani mentre nell’Ovest i Yoruba sono metà cristiani e metà musulmani. L’intento di Boko Haram è spingere gli Hausa a staccarsi dalla Nigeria - il cui presidente è il cristiano Goodluck Jonathan - e liquidare nel Nord ogni presenza di cristiani o di musulmani infedeli. Per questo Marzui usa l’espressione «pulizia etnica» per spiegare stupri di massa, vendita di ragazze-schiave e incendi di chiese nei villaggi.
Hannatu Musawa, columnist di «Sahara Reporter» vede in questa identità «basata sull’attacco ai nemici più che sulla diffusione della propria ideologia» un’influenza dei «Janjaweed», i predoni arabi protagonisti dalla fine degli anni Ottanta nel Darfur sudanese di una campagna contro i villaggi locali di tali dimensioni da portare Washington definirla «un genocidio». Di tipo analogo sono le stragi etniche che le opposte milizie, musulmane e cristiane, hanno firmato negli ultimi mesi in Centrafrica, sommando integralismo religioso e volontà di espellere gli avversari da precise regioni.
Ma non è tutto perché Chris Ngwodo, analista nigeriano, attribuisce la capacità di Boko Haram di resistere alla repressione governativa «a un messaggio sul disagio sociale nei confronti di un governo che distribuisce solo alle élites i proventi del greggio» innescando una moltiplicazione di gruppi islamisti. Una moltiplicazione che spiega perché Shekau «non è il leader assoluto del movimento» come osserva John Campbell del Council on Foreign Relations di New York, indicando in Khalid al-Barnawi e Mamman Nur due «discepoli del fondatore» altrettanto feroci.
Maurizio Molinari, La Stampa 6/5/2014